venerdì 15 settembre 2017

Da Pavarotti a Bocelli. Dall'Arena di Verona al Colosseo. La solita minestra scipita e riscaldata

Verrebbe da dire, rubando il titolo ad uno dei più banali show televisivi di imitatori ( ormai la tv propone giornalmente da settimane canzoni e imitazioni, con una ricchezza e varietà inaudite) 'tale e quale show'. Cambiano i protagonisti: prima Pavarotti ( in effigie) e poi Bocelli in carne ed ossa; cambia la cosiddetta 'location' ( che merda di termine!): dall'arena veronese a quella romana, ma la solfa è sempre la stessa. Un presentatore, appena venuto via dai 'bagni della versiliana' da una parte, una signora, che gioca  ancora a fare la ragazza, con capelli lunghi e completamente sbracciata, mentre avrebbe fatto meglio a coprirsele, oltre che tirata in faccia dall'altra. Ma l'uno e l'altra con la propria scuderia di autori che, a fine programma, viene ringraziata - non si capisce per quale  lavoro - con il prammatico, ma ridicolo: ringrazio i MIEI AUTORI.

E, nel mezzo, la solita sfilata in arena di nani, ballerine e canterini che si esibiscono nel circo televisivo - mancano solo i leoni pronti ad azzannarli - con una accozzaglia di brani, preceduti da insulse introduzioni, puntellate da immancabili flash su volti noti, seduti in platea; dall'una e dall'altra parte, la 'prezzemolina' Mantovani, vedova Pavarotti, che quest'anno s' è dimessa ( ?) da qualunque incarico, per seguire personalmente le infinite celebrazioni del decennale della morte del tenorissimo.

Dall'una e dall'altra parte la solita contaminazione (ma non è un termine che al solo pronunciarlo genera qualche epidemia?) di generi, di cantanti, al punto da produrre una vera confusione in chi guarda lo spettacolo da casa: ma Bocelli  non avrebbe fatto meglio a cantare canzonette, lasciando ad altri il resto, a quegli stessi che, invece, hanno cantato canzonette e potevano meglio figurare interpretando altri repertori? Per non dire poi del bel figlio grande di Bocelli - Matteo -  un bel manichino che ha cantato tutto 'ingolato' e che, giusto il consiglio del padre, se vuol proseguire, farebbe bene a studiare per impostare tecnicamente la voce.

Al Colosseo, con la rabbia dei leoni che guardavano il palcoscenico e ruggivano fintamente dai megaschermi, andando su e già per le gradinate senza poter azzannare nessuno, si sono visti cantanti ( soprano) e strumentisti ( violinista) belle e giovani, diversamente non  salivano su quel palcoscenico, dove pure s'è fatta vedere, spiritosa e sciolta, una irriconoscibile Sharon Stone  ( in 'Basic instinct' non era certamente lei, quanto meno non era quella di ieri sera), e poi anche i 'sempre verdi' Elton John, che ha tenuto la scena per una mezz'oretta suonando e cantando, dopo aver dichiarato la sua stima incondizionata per Bocelli. E c'era anche Renato Zero, che ha iscritto di diritto Bocelli  nella lista dei 'sorcioni'.

Della leggenda (?) del rock, di lontane origini italiane, Steven Tyler (Aerosmith), non possiamo dire se non che, per quanto ci siamo sforzati, non abbiamo capito se stava bene o meno.  Anche i '2 Cellos' hanno fatto la loro figuretta e poi tutti insieme a cantare IMAGINE, con cui si è conclusa la serata, al centro della quale va citata la JuniOrchestra  ed il Coro dell'Accademia di S.Cecilia; diretti dal podio, con qualche alternanza, da Serio, e da un altro direttore che, di fatto, ha retto buona parte della serata, ma che non è stato né citato né ringraziato, chiamato per nome.

Ma prima Bocelli ha riproposto, come omaggio alla città che aveva ospitato la sua serata benefica, il celebre Inno a Roma di Puccini, cantando il quale, per un lapsus, ha detto rivolgendosi al sole con le parole dell'inno pucciniano: tu non vedrai nessuna cosa al mondo PEGGIOR di Roma - e la sindaca Raggi, seduta in platea, ha avuto un brivido e s'è guadata intorno per vedere se riusciva a scorgere il responsabile del disastro romano di cui Bocelli accusava.

L'unica ragione che ci ha consolati della noiosissima, stantia serata, è stato il pensiero che per l'occasione venivano raccolti fondi destinati alla ricostruzione di una  scuola nelle zone del terremoto del centro Italia e per i progetti che la fondazione del tenore persegue ad Haiti.

Nonostante ciò, restiamo sempre dell'idea che la concessione di certi spazi - dal Colosseo al Palatino al Foro, ma potremmo citare molti altri casi anche solo a Roma - deve essere preceduta dalla attenta valutazione della QUALITA' del contenuto che si vuole proporre. E che, in tutta evidenza, il sovrintendente Prosperetti (che, notizia di questi giorni, propone un patto fra istituzioni per evitare a Roma la rovina) non ha capito come avrebbe dovuto.

Fosse dipeso da noi sia il Colosseo, che il Palatino che il Foro (due estati fa, a conclusione del Giubileo straordinario) non l'avremmo concesso. Ma, si sa, noi non siamo Franceschini e neanche Prosperetti. E men che meno Virginia Raggi, per fortuna.

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