venerdì 4 agosto 2017

Alberto Savinio:Scatola sonora. Nuova edizione del Saggiatore. Ci saranno anche questi scritti da noi ritrovati nel 2002?


SCRITTI MUSICALI DI SAVINIO APPARSI SU 'DOCUMENTO' mensile
ED IN SEGUITO MAI RIPUBBLICATI. ASSENTI IN ‘ SCATOLA SONORA’
                                                  di Pietro Acquafredda

                                MUSICA: Uomo Musicale ( febbraio 1941)

Roma è oggi la più musicale città d’Italia. Non lo diciamo in senso lirico, chè in questo Roma è sempre stata musicale, ma in senso pratico. Nessun’altra delle grandi città italiane dà ai suoi musicofili cittadini tre e anche quattro spettacoli d’opera per settimana durante la ‘stagione’, due concerti sinfonici, un concerto di musica da camera, senza contare i concerti minori che quartettisti e solisti dànno di tanto in tanto nella sala Pichetti.
Certo, si può deplorare che la severa Euterpe chieda asilo a un locale in cui le romane oggi nonne, hanno imparato a strisciare il piedino nel valzer lento, e a spiccare il saltino della mazurca; ma quando abbiamo detto che Roma oggi vanta la più intensa attività musicale d’Italia, non abbiamo mica aggiunto che essa dispone anche delle più belle e dignitose sale di concerto.
Resta a dire che l’attività musicale romana, per intensa che sia, è ancora ben poca cosa in comparazione all’attività musicale di alcune città di fuori, e soprattutto di Germania.
Né si parla di città mastodontiche, ma di città pari di peso a Roma, o anche minore.
Diamo un esempio.
Al tempo dei nostri studi musicali, ossia nella prima decade del secolo, andammo per alcun tempo a Monaco di Baviera, che in quel tempo non superava i trecentomila abitanti, e ove viveva allora e insegnava Max Reger, soprannominato ‘il secondo Bach’. E in questa musicalissima città i concerti sinfonici non avvenivano due volte la settimana, come oggi nella Roma di un milione e trecentomila abitanti, ma tutte le sere. E benchè quei concerti fossero in certo modo dei concerti alimentari, perché durante l’esecuzione dell’Eroica di Beethoven o delle Eolidi di Cesare Franck, gli ascoltatori potevano consumare ottime salsicce guarnite di crauti, saporitissimi Kalbsbraten ossia arrosti di vitello accompagnati con gerosten Kartoffeln ossia di patate arrostite e accompagnate sia di eccellente birra scura di Monaco, sia di biondissima e trasparente birra di Pilsen, quei concerti erano dei concerti serissimi , e tali da efficacemente contribuire alla formazione di una solida e profonda coltura musicale. E si aggiunga che con questi concerti alimentari, alternavano dei concerti anche più seri e ‘a digiuno’. Né deve stupire l’associazione delle salsicce con l’Eroica di Beethoven, perché gli olandesi, ad esempio, che sono grandi fumatori, fumano le … loro grosse pipe di maiolica anche in chiesa.
Contemporaneamente, e in parecchi per sera, avvenivano i concerti di musica da camera, e i cosiddetti récitals, nelle sale annesse ai grandi alberghi, come il Vierjahreszeiten, il Bayerischerhoff, ecc.
Diciamo per inciso che il récital, ossia il concerto limitato a un solo strumentista, è una invenzione di Franz Liszt, il quale per primo riuscì a tener desta, da solo, l’attenzione di un uditorio di concerti.
A suo tempo, il concerto del concertista solitario sembrò una prodezza impareggiabile; mentre ora, l'’bitudine dei récitals avendo nel frattempo buttato solide radici, concerti solitari ne danno anche esordienti volenterosi ma impari a tanto compito, e i quali più che sonare, ciappottano. Vero è che questi récitals non sono arsi dal delirio che infiammava gli uditorii dell’abate Liszt, ma si svolgono in sale presso che deserte, nelle quali siedono solitari i parenti del concertista, in compagnia della Noia.
In collaborazione con i concerti sinfonici, i concerti di musica da camera e i récitals, il Teatro Reale dell’Opera monacense lavorava con una intensità e una varietà di repertorio, di cui noi quaggiù non abbiamo neppure l’idea.
Prima di tutto, l’Opera monacense non era in attività durante la sola stagione, ossia per alcuni mesi dell’anno, ma per almeno tre stagioni dell’anno. E se nel cuore dell’estate l’Opera chiudeva le sue porte, non era tanto per concedersi riposo, quanto per favorire gli spettacoli wagneriani, allestiti
In un teatro situato nelle vicinanze di Monaco e costruito sul modello del teatro di Bayreuth, e i cicli di opere mozartiane che avvenivano con ogni minuzia rococò nel piccolo Prinzregententheater, affiancato al grande Operhaus, come il vitellino sta affiancato a sua madre.
E che dire del repertorio dell’Operhaus? Noi, in meno di un anno, potemmo udire e vedere, o seduti o in piedi, secondo le nostre possibilità finanziarie del momento, tutto quanto è stato scritto nel mondo in fatto di opere, drammi lirici, melodrammi; dal Der Bajazzo di Ruggero Leoncavallo, ai Troiani di Ettore Berlioz, che, per la loro mole, erano rappresentati in due sere successive.
I Troiani ( questa opera tratta dall’Eneide e che, nell’intenzione dell’autore, doveva costituire una specie di Anello del Nibelungo latino ) sono stati rappresentati la prima volta a Parigi, nel 1868, in edizione dimezzata, che occupava una sola sera e s’intitolava I Troiani a Cartagine.
E evidente che, in queste condizioni, è molto facile farsi una coltura musicale.
Ma è davvero necessaria la coltura musicale?
Per noi l’uomo àmuso è un uomo incompleto. Incompleto non solo perché gli manca la conoscenza della musica, ma perché gli manca quella correzione, quel perfezionamento di tutte le facoltà, dal modo di pensare al modo di camminare, che dà la ‘presenza’ della musica nell’uomo.
En voyage sans livres, à la guerre sans musique.
Musset, da quel superficialone che era, riduceva la funzione della musica a un incitamento alla battaglia – quando le battaglie si davano a suon di musica - ma questo esempio, però, esteso alle altre e più pacifiche attività dell’uomo, illustra l’importanza, la funzione vivificatrice della musica.
Arriveremo a dire che, siccome l’uomo non è completo se privo di coltura musicale, così nazione non può essere civile, se i cittadini sono privi di educazione musicale.
Non si guardi indietro. Non si cerchino esempi che contraddicano quello che noi diciamo: noi parliamo di una civiltà superiore a quelle che ci hanno preceduto, e che trarrà in gran parte la sua superiorità, dalla conoscenza collettiva della musica.
Come mai non è stato immesso ancora nella scuola obbligatoria un insegnamento musicale sia pur ristretto al minimo: ossia alla lettura della musica, al solfeggio, a un po’ di canto corale, a qualche nozione di armonia e di contrappunto, a qualche inizio di conoscenza degli strumenti musicali?
Come si impara a leggere e a scrivere, così si dovrebbe imparare a suonare il pianoforte, per acquistare il mezzo di leggere, ossia di conoscere direttamente le opere dei musicisti.
Noi parliamo in nome di un tipo di uomo civile, a petto al quale l’uomo che oggi si considera civile, apparirà come un rozzone.
                                                                                                                 Proteo


                         MUSICA: Da Gluck a Riccardo Strauss ( marzo 1941)

L’Opera di Stato di Berlino è venuta a dare, tra il 4 e il 9 marzo, cinque spettacoli al nostro Teatro Reale dell’opera. Le opere presentate erano cinque, e cioè: Orfeo ed Euridice, di Gluck, Il ratto dal serraglio di Mozart, Fidelio di Beethoven, I maestri cantori di Norimberga di Wagner, e Il Cavaliere della rosa di Riccardo Strauss.
Con questo programma storicamete progressivo, il dottor Heinz Tietjen, sovrintendente generale dell’Opera di Stato di Berlino, ha inteso probabilmente dare un quadro dell’evoluzione del teatro musicale tedesco; ma invece, e come noi sapevamo già, questa evoluzione è in effetti una involuzione; e se si volesse stabilire una vera graduatoria dei valori, bisognerebbe capovolgere l’ordine degli spettacoli, e mettere Gluck al posto di Wagner, e Mozart al posto di Strauss.
Intendiamoci però. La polifonia più complessa, la voce più possente dell’orchestra, la sua maggiore flessuosità, gli effetti timbrici più accesi di Wagner, e soprattutto di Strauss, possono dare a credere che Wagner e Strauss sono musicisti più evoluti di Gluck e Mozart; ma queste sono apparenze che non possono se non deviare il giudizio; e la prova dei fatti invece dà una consistenza più densa a Gluck e a Mozart, una solidità più robusta, una resistenza maggiore all’azione corruttrice del tempo; mentre i musicisti di ieri e dell’altro ieri, ossia Wagner e Strauss, già appaiono infrolliti, e, nel caso di Riccardo Strauss, si sfaldano pietosamente davanti ai nostri occhi. A chi dunque la palma del progresso?
Riccardo Strauss, benchè vivo tuttora e vegeto, lo abbiamo chiamato musicista di ieri, perché il musicista di oggi della germania è Hindemith, il quale ha superato quanto a sé quella temporaneità del gusto che tanto fatale è stata a Riccardo Strauss, e cerca di ricondurre la musica a uno stile più sobrio, meno appariscente, ma più solido assieme e tale da ricongiungersi alla linea di Bach, di Gluck, di Handel.
La musica di Strauss, che l’esecuzione del resto ottima, del Cavaliere della rosa ha rinfrescato nella nostra memoria, è la dimostrazione più suadente che l’opera d’arte va confezionata in condizioni di perfetta calma, di piena padronanza della propria ragione, e in una atmosfera scolastica, per non dire burocratica. IN questo senso probabilmente Goethe diceva che l’arte è una lunga pazienza.
Non possiamo prendere come esempio Gluck, perché Gluck si chiude nel sublime come dentro una inespugnabile torre, e il sublime non si piò né esaminare né controllare. Ma l’ esempio del Ratto dal serraglio cade a proposito per dimostrarci che tanto più alto, tanto più libero, tanto più folel sale e vola il lirismo, quanto più logica, più ferma, più ragionata è, sotto, la struttura musicale.
Strauss ha preso alla lettera le idee di progresso e modernismo, tanto in voga nei primi anni del secolo, quando egli scriveva Salomè, Elettra, Il cavaliere della rosa. E la sua opera ha il temporaneo, il caduco, il superficiale di quelle idee. Si aggiunga che l’adesione a queste idee è stata rovinosa anche per l’architettura, per le scienze. La medicina stessa è andata incontro a una specie di grosso fallimento, per essersi troppo fidata delle idee di progresso e di modernismo.; senza parlare della psicologia e, in genere, del ‘pensiero’. Strauss è il padre Loyson della musica.
C’è qualcosa di irragionevolmente caparbio nella musica di Strauss, di ingiustificatamente ribelle, di ingenuamente anarchico, di insolente, di petulante. C’è il capriccioso di certe ragazze isteriche e maleducate.
Che ‘l’anarchismo’ della musica di Strauss non sia avvertito dagli uditori di oggi, è una quistione di mitridatismo. Io mi riferisco alle reazioni che la musica di Strauss suscitava al suo nascere. E si aggiunga che se l’anarchismo di Strauss non ha spaventato nemmeno al suo primo apparire, è perché è un anarchismo seducente, civettuolo, da salotto.
Si consideri l’attacco delle musiche di Strauss, tanto delle opere, quanto dei poemi sinfonici. Tutte cominciano con una specie di alzata di spalle, di sgrullata. Anche Il cavaliere della rosa, che comincia con un grande starnuto dei corni e dei fagotti.
E’ un modo di presentarsi tra puerile e funambolesco, e soprattutto indelicato: la buona educazione vuole che si entri in un salotto, e soprattutto in un salottone pieno di signore come il teatro, senza attirare l’attenzione sopra di sé; una ricerca dell’effetto immediato; una maniera di ‘far colpo’, un dire: ‘ Sono qua io!’.
Del resto, la ricerca dell’effetto immediato non è soltanto nell’esordio delle musiche di Strauss, ma in tutto il corso del loro sonoro organismo. La musica di Strauss è una musica imbellettata. Una musica alla moda. Ma ala moda del 1910, col boa intorno al collo e l’aspri sul cappello. Ed è per questo che essa non può nascondere i suoi anni, giocare con le date, sembrare giovane, come così facile riesce alla musica di Mozart.
Questo esordio ingenuamente spavaldo della musica di Strauss, ha il suo equivalente nella pennellata spavalda alla Franz von Stuck. Del resto, questa non è la sola affinità tra musica di Strauss e pittura di Stuck. Arte che noi chiamiamo pompiera , e i Tedeschi kitch.

* * *

Occorre dirlo? Il cavaliere della rosa è stato il punto di attrazione, il polo magnetico della settimana romana della Staatsoper di Berlino. Malgrado la soppressione degli abbonamenti e delle tessere, malgrado i posti aggiunti, non un centimetro quadrato rimase vuoto nella immensa sala del Teatro Reale dell’Opera, e noi che, Dio lo sa, nonandiamo a teatro per il nostro divertimento, eravamo stati sbattuti in fondo alla sala, all’ultimo posto dell’ultima fila di poltroncine, sopra un sediolino senza braccioli né spalliera, che dalle 17.30 alle 21.30 ci costrinse a una sgemba e raggomitolata posizione di fachiri.
All’eloquenza dongiovannesca di Strauss, a quel melodismo disteso e senza approdo, a quella voluttà in perpetua preparazione ma senza sfogo, il pubbklico pigiatissimo godeva: felice di capire, di apprezzare, di ‘amare’ finalmente e senza sfrozo un artista che, per molti, è oggi ancora uno dei ‘grandi audaci’ del secolo. Il borghese è diventato amico del leone.
Nei primi anni del secolo, il Corriere della Sera aveva affidato la critica musicale a Giovanni Pozza, che di musica non s’intendeva affatto. Capitò in quegli anni l’esordio di Strauss in Italia. E Pozza se la cavò così: disse che come Riccardo preferiva Wagner, e come Strauss quello dei valzer.
Giudizio stupido. Ma vero.
                                                                                                                    Proteo




                                                MUSICA ( aprile 1941 )

Una mattina abbiamo letto nel giornale: ‘ Il Reale dell’Opera è partito per Berlino’. Che maniera di esprimersi! Da questa notizia abbiamo visto il teatro Reale dell’Opera, che di fronte a una drogheria, una macelleria e un paio di bar se ne sta accovacciato sotto il livello stradale, quasi non edificio dei nostri tempi, ma contemporaneo del Colosseo e del Pànteon; lo abbiamo visto gonfio di canori re e regine, e trovatori, e sacerdoti, e guerrieri, e orchestranti, e ballerini, e mimi; girare su se stesso e muoversi faticosamente fra le automobili e i tram dei Castelli, e mettere la prua a settentrione per traversare il valico delle Alpi e approdare nella città di Federico il Grande. Passerà la primavera, passerà l’estate, passerà anche l’autunno, e fino all’inverno venturo non rivedremo la sala rossa e dorata sfolgorante di luce; poi la luce che si spegne nel mezzo e lascia brillare torno torno i palchetti a cellule d’alveare; poi la palpebra d’ombra che scende anche sui palchetti, il buio che invita al raccoglimento, la testa del Maestro Sarafini ( sic, nel testo )che sorge laggiù come un rotondo fuoco d’argento dall’alone dorato del golfo mistico; poi il velario che si fende nel mezzo come una bocca verticale sui cieli, sulle magioni, sul mondo assurdo e magnifico del melodramma.
La stagione di quest’anno si è aperta con la Norma e si è chiusa con l’Elisir d’amore, passando attarverso l’Alceste di Gluck, il Crepuscolo degli dei, Fidelio di Beethoven, il Gallo d’oro di Rimsky-Kòrsakov e due balletti di Stravinski: Petruska e la Sagra della primavera. Con che quella progressione non c’è stata che dovrebbe essere in ongni opera siccome in ogni vita d’uomo, e che nei Gradus ad Parnassum di Muzio Clementi porta dagli esercizi più facili e bianchi, a quelli più difficili e neri di biscrome.
La mancanza di progressione non è la sola ragione per la quale avremmo preferito che la stagione lirica di quest’anno si fosse chiusa su qualcosa di più serio, di più importante dell’ Elisir d’amore; e che più degno di ricordo fosse l’ultimo guardo che Euterpe ci ha dato da entro l’arco scenico del Teatro Reale dell’Opera.
L’ambientazione dello spettacolo cui abbiamo accennato poco prima, cioè a dire la sala intenebrata, il golfo mistico onde sale il suono d’invisibili strumenti, gli spettatori raccolti in divozione siccome protocristiani nelle catacombe, è quella voluta da Wagner nel suo teatro di Bayreuth, e imitata di poi da tutti gli altri teatri; ma se quest’ambientazione è giustificata alla rappresentazione del Parsifal, diventa assurda per converso alla rappresentazione dell’Elisir d’amore.
Al buio, l’esile musica di questa operetta diventa più esile ancora, la sua superficialità, le sue marcette da banda militare, le sue arie aggiunte che strappano l’applauso si troverebbero meglio in una sala illuminata a festa, sotto un lampadario sfavillante, fra dame e gentiluomini che nei palchetti si scambiano pettegolezzi dietro il ventaglio, e gli afficionados che si spellano le mani per farsi ripetere ‘ Una furtiva lacrima’.
La musica dell’Elisir d’amore non soltanto manca di profondità, ma non penetra neppure nel soggetto al quale si è associata per comporre l’annunciato ‘ melodramma musicale’. ( Profondità non è soltanto nel tragico, nel patetico, nel melanconico, ma anche nel comico e nell’allegro, come dimostrano il Barbiere di Siviglia, il Falstaff, le Nozze di Figaro; ed è anzi la profondità di qualità migliore). La musica dell’Elisir d’amore è semplicemenete ‘posata’ sulla commedia di Felice Romani, a guisa di accompagnamento o abbellimento sonoro. I personaggi di questa commedia, che nemmeno a farla apposta ne ha due tipicissimi: il dottor Dulcamara e il sergente Belcore, non sono minimamente illustrati dalla musica. Le arie che canta il sergente Belcore potrebbero essere cantate anche da Nemorino, con la sola trasposizione dalla chiave di basso a quella di tenore; e si pensi d’altra parte che cosa sarebbe diventato l’arrivo in piazza del dottor Dulcamara e la scena dell’imbonimento, in mano di uno Stravinski nato a Bergamo nel 1798.
Scritte queste parole, già vediamo il postino recapitarci le furibonde lettere di coloro che ci vogliono punire, perché abbiamo osato ‘stroncare’ l’ Elisir d’amore.
Costoro sono i paladini di ogni riconosciuta fama: noi i persecutori dell’ignavia in qualunque forma o luogo essa si trovi. E l’ignavia s’incontra troppo spesso nel nostro melodramma dell’Ottocento, in quelle partiture raffazzonate alla svelta, scritte in fretta e sotto l’occhio impaziente dell’impresario, senza sforzo, senza meditazione, senza giudizio, affidate alla fortuna di un paio di ariette a affetto, molto spesso estranee al soggetto del melodramma, e che sono arrivate fino a noi perché queste ariette appunto hanno acquistato la forza e la tenacia dei ricordi di famiglia.
Lo spettacolo di un intero pubblico che si rompe la pelle delle mani e si busca la raucedine per chiedere il bis di ‘Una furtiva lacrima’ al tenore Beniamino Gigli, non è certo uno spettacolo eroico, non è certo uno spettacolo confortante, non è certo segno di un’eccelsa civiltà artistica; ed è lo spettacolo appunto che ci toccò vedere alla prima dell’Elisir d’amore, nel nostro teatro Reale dell’Opera.
Con questo non intendiamo menomamente diminuire la fama dell’ispirato e malinconico musicista bergamasco. Ma pensiamo che la sua fama è assai meglio difesa dalle sue opere più serie, e soprattutto dalla Lucia di Lammermoor, nella quale c’è l’aria bellissima ‘ Tu che a Dio spiegasti l’ali’, che, secondo il computo di un filosofo viennese, è la melodia più lunga che finora sia stata scritta.
* * *
In occasione della Sagra della primavera, rappresentata al Teatro Reale dell’Opera, qualche giornalista più colto ha rievocato la ‘battaglia’ che questo balletto di Stravinski accese la sera della prima rappresentazione, avvenuta a Parigi, il 28 marzo ( la data esatta è 29 maggio , ndr.) del 1913, al Teatro dei Campi Elisi. Non bisogna esagerare. Noi che avemmo la ventura di assistere a quel lontano spettacolo, possiamo assicurare che come battaglie ne abbiamo viste di ben più cruente. Cominciamo col dire che la sagra della primavera non è tra le opere migliori di Stravinski, anzi una delle più retoriche ed estetizzanti. Quella sera la furia degli stravinskiani superò quella degli antistravinskiani. Tra i primi era anche Gabriele D’Annunzio che, sporto da un palchetto
di proscenio, applaudiva ostensibilmente, con le mani vestite di candidissimi guanti. Qual valore di giudizio ha il plauso di Gabriele D’Annunzio? Pochi anni prima, e con grande ardore, egli aveva lodato Riccardo Strauss, chiamandolo ‘ il barbaro temerario e magnifico dagli occhi chiari’; e via via egli lodò Aristide Sartorio e Claudio Debussy, Ildebrando da Parma e Adolfo De Carolis…”.
                                                                                                                 Proteo




                                     MUSICA ( Senza titolo) Maggio 1941

Non tenterò mai più di udire il pianista Guglielmo Backhaus. Il destino me lo vieta. Lo so, né mi è più consentito nutrire dubbi in proposito.
La prima volta che tentai di udire Backhaus, fu a Parigi, nel 1912. Il récital di questo famoso pianista era annunciato alla salle Gaveau, e io provvidi tempestivamente a comprarmi il biglietto; ma l’addetto al botteghino sbagliò, e io, invece che al concerto Backhaus, mi trovai in una salla secondaria della salle Gaveau, nella quale operava un quintetto della scoietà musicale ‘ la Trompette’, il quale stava eseguendo il quintetto di Schubert, detto ‘della Trota’. Quando l’equivoco fu chiarito, e io potei scendere nella sala principale, feci in tempo a vedere Backhaus lontano lontano e piccolo piccolo, seduto al pianoforte, che martellava gli ultimi accordi; poi lo vidi alzarsi e salutare il pubblico; e questa scena si svolse in un silenzio totale, perché io la vedevo attraverso l’occhio di vetro di una porta potentemente imbottita, e impermeabile ai suoni.
La seconda volta che io tentai di udire Backhaus, fu in una città della Svizzera, ma all’ultimo momento, non ricordo perché, il concerto fu rimandato.
Non starò a fare la storia del terzo, quarto, quinto, sesto tentativo di udire Backhaus, tutti in egual modo vani.
E arriviamo al settimo e ultimo tentativo.
Questa volta era sicuro di riuscire. Ci avrei scommesso. Lo avrei giurato. Pensavo che anche se perdevo il concerto domenicale, nel quale il valoroso pianista di Lipsia doveva eseguire, assieme all’orchestra dell’Adriano, il terzo e quarto concerto di Beethoven, mi sarei rifatto sul concerto del mercoledì successivo, nel quale questo sultano della tastiera doveva sonare ben cinque sonate di Beethoven, una di fila all’altra.
La vigilia del primo concerto, una ragione imprevista e imperiosa mi costrinse ad allontanarmi da Roma. Ma non per questo mi diedi vinto. Che ne sarebbe allora della magica potenza dei nostri tempi? Non per nulla l’uomo ha captato l’ètere. Mi feci portare in camera una radio. Una radio magnifica, lustra e tracagnotta, dal cruscotto brillante e complicato, come quello di un’automobile del corpo diplomatico.
Avvenne non so quale confusione sulle onde, e invece del concerto Backhaus, udii la trasmissione della partita…
Alla parola ‘partita’, i musicisti drizzano le orecchie…
della partita di calcio Fiorentina – Juventus.
Altri tentativi di udire il pianista Backhaus, non li farò più. Addio, Guglielmo!

* * *
Ma è veramente necessario udire il pianista Backhaus? Amici musicalmente coltissimi, e nel giudizio dei quali io ho fiducia piena, mi assicurano che Guglielmo Backhaus è pianista tecnicamente impeccabile, ma del tutto privo di sentimento.
Questo mi dimostra che il gioco di Backhaus appartiene a un’alta civiltà pianistica.
L’alta civiltà pianistica esclude il gioco patetico, il gioco caldo, il gioco di sentimento. Si tratta più che altro di sorvolare, di passare oltre, mantenendosi sempre rigorosi e puliti.
La positura stessa di Backhaus davanti allo strumento, quale me la ricordo di quella unica e remotissima volta che io lo vidi, lontano lontano e piccolo piccolo, attraverso l’occhio di vetro della porta della sala Gaveau, conferma questa sua appartenenza all’alta civiltà pianistica. Egli stava seduto compostamente e discosto, quasi il pianoforte fosse stato verniciato di fresco ed egli temesse di insudiciarsi i pantaloni; le sue mani toccavano la tastiera leggermente e dall’alto, quasi i tasti fossero roventi e ogni nota gli procurasse una scottatura.
Quanto a suono, un immacolato silenzio.
Che forse è il modo migliore di ascoltare un pianista.
Perché se l’alta civiltà pianistica esclude il patos, il sentimento, il calore; la suprema civiltà pianistica esclude anche il suono, e si arriva al pianista perfetto: il pianista silenzioso.
* * *
Poiché la sorte non ci consentì di godere auditivamente i due concerti beethoveniani per pianoforte e orchestra, eseguiti a Roma dal pianista Backhaus, usiamo del modo migliore e ‘più civile’ che ci rimane di assaporare essi due concerti, che è di rileggerceli in silenzio nei chiari e impeccabili quaderni delle edizioni Peters.
Nel terzo concerto per pianoforte e orchestra ( do min.) Beethoven è ancora giovanile e perentorio. Egli è ancora ‘soltanto’ tedesco: nuhr Deutsch. La sua faccia è ancora quella del vitello imbronciato. Il tema iniziale è affermativo fino a diventarne stupido, non lascia la minima fessura al dubbio, all’interrogazione, al ‘perché’. E quando il pianoforte riprende in ottave e fortissimo il tema proposto e sviluppato dall’orchestra in un’abbondante introduzione, egli lo fa precedere da tre scale ascendenti, in melodico minore, come per afferrarlo con zampe di leone.
Il carattere di questo concerto è eloquente e superficiale. La melodia che ogni tanto fa oasi nel primo tempo ( mi, re mi fa re do, sol ) è, senza dubbio né inganno, piccola di statura e corta di gambe.
Il largo del secondo tempo è patetico come si conviene, un po’ stentato nei suoi sviluppi un po’ troppo fioriti, ma ricco di buoni consigli per il giovane Chopin. Pettegolo e insistente, il terzo tempo ( rondò ) anticipa piacevolmente l’invenzione della macchina da cucire.
Il quarto concerto per pianoforte e orchestra è una delle opere più alte, più pure, più spaziose e alitanti di Beethoven. Platone non ha scritto un dialogo più leggero e profondo, di quello che in un continuo scambio di idee fecondantesi a vicenda, cantano il pianoforte e l’orchestra, nel primo tempo di questo concerto.
Il terzo tempo riapre per noi l’Età dell’Argento. E non dico dell’Oro, perché l’oro è troppo rilucente ancora, troppo vibrante, troppo caldo; e solo l’argento può dare idee di quella ‘luce al di là della luce’, che il rondò del quarto concerto di Beethoven esprime.
Dopo il quarto concerto per pianoforte e orchestra, viene il quinto concerto. Ma Backhaus non l’ha sonato, forse per delicatezza a Wagner. Perché nel quinto concerto per pianoforte e orchestra, Beethoven ha generosamente raccolto tutto il materiale, di cui Wagner si è servito di poi per scrivere la Valchiria e il Tristano.
                                                                                                            Alberto Savinio



                                 Musica: Purificazione ( settembre 1941)

I critici musicali esaltano concordemente e assieme stupiscono della nudezza e frigidità in cui si è ridotta la musica di Igor Strawinski. Per chi no lo sapesse, dirò che Strawinski si è dato da parecchi anni al misticismo. E se da quando io non lo vedo più questo fenomeno spirituale ha continuato a regolarmente svilupparsi, l’autore di Petruska dev’essere ridotto a quest’ora alle condizioni di un pope, se non addirittura di quei santoni di cui abbonda il suo paese d’origine ( russo di nascita, Strawinski si è fatto alcuni anni sono francese). E poiché il più efficace mezzo di espressione di questo pope rimane pur sempre la musica, è naturale che l’ascesi della sua anima in via di purificazione egli la manifesti con i suoni. Del resto la marcia alla semplicità nell’opera di Strawinski è cominciata da un pezzo. Prima della Sonata per pianoforte egli ci aveva dato Persefone, e il Concerto per due pianoforti, e altre musiche di pretto carattere premozartiano. E prima ancora ci aveva dato Apollo in cui la semplicità non è soltanto nella forma della composizione, ma negli stessi mezzi orchestrali ridotti al solo quartetto d’archi. E prima ancora ci aveva dato Nozze, esse pure molto semplici e ortodossamente corali, e appena sostenute dalle aride sonorità di due pianoforti doppi e della batteria. Singolare l’evoluzione di questo musicista proteico, che da Dioniso scita diventa a poco a poco una specie di psaltes da Santo Sinodo. Singolare e contraria a qualunque legge naturale. Il grande ingegno di cui è fornito Strawinski lo sorregge ancora e anche le sue musiche più recenti e astratte sono piene di grandissimi pregi musicali. Ma la parabola del peccatore pentito e del lupo travestito da agnello mi convince poco. E’ pericoloso certo, è forse troppo ‘lombrosiano’ considerare la vita sub specie pathologiae, ma chi assicura che questa marcia alla semplicità sia in fondo una forma di inaridimento? Quello che me lo fa credere è che la marcia alla semplicità avvenga di concerto al progressivo misticismo di Strawinski. A un’arte puramente spirituale, a un’arte pitagorica, a un’arte del tutto astratta io non credo. Anche quando egli diventò nemico Nietzsche serbava a Wagner una profonda riconoscenza: perché da vegetariano lo aveva fatto diventare carnivoro.
Apollo musagete è una delle opere più belle, più alte di Strawinski. La libertà che Strawinski ha conservato pur nel suo rigore attuale, nella sua attuale castigatezza, gli consente di abbandonarsi senza pericolo di contagi né di compromissioni a una parafrasi dei più sciatti, dei peggiori ‘modi’ musicali. In questo Apollo musagete Strawinski non si pèrita di parafrasare Coppélia, Sylvia di Léo Délibes. E chi conosce questi balletti da Grand Opéra di sessant’anni addietro, sa quale odore di paciulì essi esalano. Ma Strawinski riesce a renderli anatomia pura, pura radioscopia. Riesce là ove falliscono gl’idealisti innamorati, a portare alla purezza la prostituta amata.
NdR. L’ultimo brano dell’articolo, dedicato esclusivamente all’Apollo musagete di Strawinski è pubblicato in Scatola Sonora a pag. 186-187, a conclusione di un articolo, intitolato ‘Apollo musagete’ , ripreso da Oggi’ dove era apparso qualche mese prima (14 aprile 1941 ).
                                                                                                              Alberto Savinio




                                                          Musica ( febbraio 1942 )

Se musica mai si è fatta discorso, questa è la musica di Brahms. Del discorso ha il passo pacato, il tono suadente che viene dal cervello e assieme dal cuore.
La musica di Brahms invita alla confessione. Della confessione pratica essa pure per mezzo di ben combinati suoni lo insinuante meccanismo. Infonde essa pure in noi la dolce persuasione che peccati vergognosi non esistono e che tutto può esser detto.
Evidente è l’affinità tra Giovanni Brahms e Giovanni Bosco. Archivista d’Euterpe, riunirei tutte le opere di Brahms sotto questo titolo comune: ‘Musica del Buon Consiglio’.
Nessuno meglio di Brahms ha messo a profitto il precetto che il passo non deve superare la gamba. Nessuno meglio di lui ha meditato la favola della lepre e della tartaruga. In gara podistica con Lodovico van Beethoven, Brahms riesce talvolta a battere il campione del mondo di parecchie lunghezze. Nel giornali sportivi del tempo si legge che Lodovico ha perduto tempo per istrada, dava ascolto all’usignolo che canta e al ruscello che fruscia, voleva captare la folgore per accendere brividi a grande effetto nelle sue sinfonie, voleva porre montagne una sull’altra come altre volte i giganti di Tessaglia e tirare giù dal cielo le nuvole a bracciate; si faceva prendere da attacchhi di epilessia per il gusto di sentirsi gridare sehr interessant dai tifosi raccolti sul margine della strada, e infine arrivò con parecchi minuti di ritardo.
Si sente dire di tanto in tanto che Brahms ‘ è un po’ pesantuccio’, ma da coloro soltanto che alla saggezza di Brahms vogliono opporre la pazzia della genialità, al legalismo borghese di Brahms l’ “ anarchia dell’arte”.
* * *

Brahms scrive musica in prosa. Ma la prosa di questo prosatore della musica è commoventemente bella. Una prosa che finisce per essere più armoniosa, più sonora, più dolce della poesia. Toccò a Brahms come a Manzoni, questi due mirabili prosatori: la necessità di farsi da sé, senza aiuti, a poco a poco, con molta pazienza – loro che non erano stati particolarmente favoriti dalle muse né avevano trovato, come Mozart, come Leopardi, fra i doni appesi alla culla anche lo strumento perfetto della loro futura arte – di farsi uno strumento per dare voce agli accenti della loro anima un po’ tarda, un po’ opaca, ma colma di buoni, di onesti, di profondi, di poetici sentimenti.
I temi di Brahms, i suoi spunti melodici non hanno il lampeggio della trovata che non ammette repliche. Presentano una faccia buona ma comune. Sembra che Brahms se li sia andati a scegliere uno per uno, tra la enorme confusione dei temi che ingombrano i Magazzini Generali della Musica.
Ma come se li cura poi questi temi il bravo e paziente Brahms! Come se li alliscia, come se li lavora! Nella musica di Brahms si ritrova la pazienza dell’orologiaio, al quale Brahms del resto somiglia anche fisicamente, curvo sul desco sparso di rotelline dentate, il tubo della lente incastrata nell’occhio.
Brahms fu rivelato da Schumann. Costui scriveva nel 1853: ’E’ venuto questo giovine sangue, alla culla del quale hanno vegliato Grazie e d Eroi. Si chiama Giovanni Branms; raccomandatomi poco prima da un Maestro conosciuto ed amato, è arrivato da Amburgo, dove componeva in un silenzio oscuro, ma dove un maestro eccellente ed entusiasta ( Edoardo Marxen ) lo educava alle forme più difficili dell’arte. Trasparivano dalla sua persona tutti quei segni che ci annunciano: ecco un eletto! Quando si mise al pianoforte cominciò a scoprirci regioni meravigliose: noi venimmo attirati in un circolo sempre più magico’.
Schumann è musicista di una sola stagione. La parabola vitale e artistica di Schumann è conchiusa in una prolungata adolescenza. Premesso ciò, diventa facile la spiegazione del ‘ romanticismo’ di Schumann.
Era naturale che Schumann scoprisse Brahms: era naturale che un romantico scoprisse un altro romantico. Brahms è stato chiamato ‘l’ultimo dei classici’, ma da gente che non se ne intende. Da gente che crede il romantico un agitato, un tenebroso, un perpetuo sospirante. E non sa che i più romantici sono questi uomini di apparenza tranquilla, di aspetto patriarcale come Brahms: che guardano con occhio calmo ma non si accontentano di quello che vedono, perché nella loro mente portano un mondo molto più bello, al quale sempre anelano e fino alla morte sperano di arrivare.
Nel romantico c’è l’educatore. Perché soltanto il romantico ha la possibilità, ‘il diritto’ di segnalare qualcosa all’allievo, di guidarlo, di additargli questa meta, se intravista sempre e sempre sfuggente non importa.
Non sappiamo nulla della vita di Brahms: non vogliamo sapere nulla. Amori? Drammi? Felicità?
Dolori?… Per noi Brahms è solo: il buon maestro barbuto, appoggiato con le forti spalle agli scaffali della sua biblioteca.
E’ una sorpresa ogni volta ricordarci che Brahms è morto; e da tanti anni ormai; dal 1897. Per non Brahms è presente. Per il dovere che hanno gli educatori di essere sempre presenti.
Il Vater, il Padre Musico, il Contrappuntista Consolatore non ci abbandona. Il suo fiato caldo ci sfiora la guancia, il suo sguardo calmo e forte ce lo sentiamo alle spalle, come un muro.
Nei momenti difficili, tra le facce anonime della folla, quando più forte ci stringe la paura di trovarci soli, vediamo d’improvviso il suo volto passare come una luce rapida.
Di notte, quando più densa preme l’angoscia che tutto è finito e ogni ritorno chiuso, la sua testa bianca passa lentamente e di profilo dietro i vetri della finestra, e la notte acquista il suo ‘perché’.
Così sarà, ne sono certo, anche nella stretta finale. Quando la mia finestra sarà la soglia della vita e il cielo notturno il cielo della morte. Lui, il Consolatore, l’indice sulle labbra di nuovo apparirà per darmi dopo tante ‘penultime’, anche l’Ultima Speranza.
                                                                                                            Alberto Savinio



                     Musica: Si comincia a veder uno spiraglio ( ottobre 1942)

Ho udito nel settembre passato, a Siena, il Guglielmo d’Aquitania di Giambattista Pergolesi; ho udito nel maggio passato, a Torino, il Peer Gynt di Werner Egk; dai quali esempi mi è parso intravedere il delinearsi di una nuova forma di teatro musicale ( intendi opera, melodramma): quella nuova forma di teatro musicale che dalla fine del teatro wagneriano in qua , tante volte si è creduto di scoprire, ma sempre invano: quando nel balletto russo, quando in certe operine come l’Heure espagnole di Ravel, o Mavra, l’Usignolo di Strawinsky.
A ragion veduta non ho citato fra i tentativi di creare, dopo il teatro wagneriano, una nuova forma di teatro musicale anche il melodramma verista, perché nella storia del teatro musicale il melodramma verista è una triste parentesi: una parentesi tutta istintiva, tutta spontanea ( io, mi si perdoni l’insanità del sentimento, nutro una profonda repulsione per tutto quanto è istintivo, spontaneo) priva della coscienza e degli accorgimenti dello stile; e qui noi parliamo dei soli fatti musicali che rientrano nella zona dello stile. Rimane da dare una spiegazione: come mai tra gli esempi che mi hanno fatto intravedere la formazione di un nuovo teatro musicale, è anche il Guglielmo d’Aquitania, ossia un ‘dramma sacro’ che Giambattista Pergolesi scrisse nel 1731?…
Mi spiego: la rappresentazione del Guglielmo d’Aquitania che nel settembre scorso abbiamo veduta a Siena, è stata profondamente, radicalmente elaborata da Corrado Pavolini, divisa in parti recitate, parti recitate in canto ( recitativo) e parti cantate, onde si può dire che come opera drammatica e di teatro, questa versione senese del Guglielmo d’Aquitania è molto più di Corrado Pavolini, ossia di un nostro contemporaneo, che di Ignazio Maria Mancini, autore del ‘dramma sacro’ che Pergolesi adornò di suoni.
Ho intraveduto il delinearsi di una nuova forma di teatro musicale… L’ho intraveduta soprattutto nell’aspetto frusto delle due opere citate: nella loro superficie traforata, nel loro manto musicale ‘ a giorno’, nel loro mantello musicale di mendichi, ossia costellato di buchi. Forse ora solamente sta cadendo l’ultimo ostacolo ‘wagneriano’ che impediva al teatro di musica di riprendere la sua vita indipendente. Si trattava di liberare il teatro di musica dal chiuso, dal totalitarismo wagneriano, come si tira su dal fondo del mare un sommergibile naufragato, per ridargli aria e salvare così la vita dell’equipaggio. Wagner aveva pensato il teatro di musica alla guisa di uno stufato ( una cottura musicale a l’ etuvée) e l’opera wagneriana è tutta immersa, tutta sommersa nella musica; è priva di ogni spiraglio onde l’aria del mondo possa entrare e mischiarsi all’aria metafisica della poesia, e comporre le misteriose mescolanze che generano l’arte; è assente dunque di ogni senso, di ogni possibilità drammatica, poiché la scintilla drammatica non può sprizzare se non dal violento contrasto tra fisico e metafisico.
Ci si è mai domandata la ragione della singolare, della straordinaria, della vertiginosa poesia di alcuni melodrammi come il Trovatore, il Ballo in maschera?…La ragione è questa: il violento contrasto tra fisico e metafisico.
Guglielmo d’Aquitania, Peer Gynt: opere ‘fornite di sfiatatoi’; opere perforate di buchi, come le scatole per far viaggiare i canarini. L’aria circola in queste opere – ancorchè non quanto noi si vorrebbe. Per ridare possibilità di vita al teatro di musica, bisogna anzitutto metterlo in condizione di suscitare una nuova e forte drammaticità; per suscitare una nuova e forte drammaticità nel teatro musica, bisogna anzitutto rompere la continuità della musica. Assioma: un nuovo teatro di musica, deve prima di tutto togliersi dalla musica. Poi, sopra un terreno sgombro, asciutto, farà tornare la musica all’improvviso, inaspettatamente, come un’apparizione, come una sorpresa: sorpresa demonica a volte e a volte angelica: ma a piccole dosi – sempre, intermittentemente. Evitare l’immersione musicale e la conseguente asfissia.
Altra condizione indispensabile alla rinascita del teatro musicale, è il bando dei cantanti dalla scena. Nell’Ottocento la presenza dei cantanti sulla scena non infirmava il carattere burattinesco, cioè a dire metafisico del melodramma, perché nell’Ottocento i cantanti erano dei burattini viventi. Ma tra l’Ottocento e oggi si è frapposto il melodramma verista, i cantanti hanno imparato a comportarsi sulla scena come uomini veri, e nulla è esiziale al melodramma quanto la verità.
Il rimedio c’è: basta generalizzare quello che fu fatto l’anno passato nella rappresentazione di Mavra di Igor Strawinsky: l’interpretazione più spiritosa e intelligente che finora ci abbia data il Teatro Reale dell’Opera. I cantanti erano stati calati in orchestra e sostituiti sulla scena da mimi.
Ottima l’idea di mettere in orchestra i cantanti, che da sotto prestano la loro voce ai mimi che operano sulla scena. Molti vantaggi di questa disposizione: maggiore portata delle voci, che non hanno dietro a sé l’immenso vuoto del palcoscenico, ma il fondo sonoro della cavea; agilità e disinvoltura di movimenti dei personaggi sulla scena, i quali non hanno la preoccupazione di

cantare e assieme di recitare; e soprattutto raggiungimento dello stile indiretto, ossia dello stile.
                                                                                                                          Proteo



                                
                                  Ricordi del Teatro Lirico ( Nov.-Dic. 1942 )

I teatri d’opera continuano a funzionare con esemplare regolarità. Di anno in anno le stagioni liriche si rinnovano in un’atmosfera di trionfo, tra folle plaudenti e perentorie richieste di bis. Che più? Dopo un triste interregno di ‘colpi d’ugola’ e di enfatica urlanza, il miracolo si ripete sulle nostre scene del bel canto, e se Arrigo Beyle tornasse in vita ritroverebbe i suoi gaudii preferiti, e se li potrebbe assaporare dentro un palchetto della Scala, al fianco della Bibin Catena.
Eppure il teatro lirico non ha vita; diciamo meglio: non ha vita presente. E se non fosse la forza di propulsione che gli viene ancora dal melodramma dell’Ottocento prima, poi più giù dal melodramma verista, oggi il teatro lirico non camminerebbe come cammina, ma starebbe fermo: stecchito. Vogliamo dire in altre parole che se l’opera non fosse stata inventata tre secoli fa, oggi nessuno si sognerebbe d’inventarla. Passiamo agli esempi. Quello che noi diciamo è confermato anche da questo, che le ancor fortunate stagioni d’opera sono alimentate unicamente da opere ‘di repertorio’, ossia da opere di rendimento sicuro, prive di ogni sorpresa o lieta o triste, e appartenenti al passato. Ma le opere nuove dove sono che dovrebbero venire ad arricchire il repertorio e a poco a poco a rinnovarlo? A rompere l’ostile tradizione si sono costituite quest’anno generose ancorchè brevi stagioni di opere ‘contemporanee’, pregustazioni delle stagioni maggiori e regolari della Scala e del Teatro Reale dell’Opera. Quali frutti hanno dato? L’opera che più è ‘andata’ fra quelle presentate dal Teatro Reale dell’Opera è Wozzeck di Alban Berg, che è un’opera di pretto carattere espressionista, ossia un esempio di ciò che gl’igienisti dell’arte vogliono rigorosamente vietare e che del resto danno come ‘superato’. Resterebbe a vedere se opere come Wozzeck sono così nocive alla nostra salute artistica, e se veramente sono ‘superate’ e da che; ma questo è un altro discorso. Sta per nascere tra noi una nuova forma d’opera, come dopo l’opera del Settecento nacque l’opera dell’Ottocento, e come dopo l’opera dell’Ottocento nacque il melodramma verista? Per parte nostra non ci crediamo affatto, e del resto noi qui non siamo stati invitati a fare opera di profeti. L’opera cominciò a morire nel giorno stesso in cui il wagnerismo cominciò a nascere. Quello che a tutta prima sembra un arricchimento e una rinascita, tante volte è un impoverimento e una morte. Quasi ciò non bastasse, Debussy, Strawinsky e altri ‘balletti russi’ si adoprarono a dare al teatro musicale, già mortalmente ferito, il colpo di grazia. Nuoce al teatro di musica ogni tentativo d’ingrandimento, di atmosfera nuova, di idee audaci.
Se si voleva che l’opera continuasse a vivere bisognava lasciarla ‘cuocere nel suo brodo’, che è un brodo nel quale innovazioni, intelligenza e altri simili ingredienti si trasformano in tossine. L’opera è conservatrice per sua natura e, diciamolo senza vergogna, stupida. E’ in virtù del suo conservatismo e della sua sana e onesta stupidità che l’opera, ancorchè vecchissima, si mantiene ancora viva e in gamba; simile in questo a tanti altri culti, e istituzioni, e costumi, che pure in mezzo a evoluzioni e mutamenti continuano a stare in piedi, canuti ma robusti. Che altro possiamo dire del teatro lirico?… Nulla. Passiamo dunque a rievocarne alcuni ricordi.

Abbiamo raggiunto il mezzo secolo di vita: abbiamo fatto in tempo a conoscere il tempo del melodramma verista, quando il melodramma verista era ancora caldo di vita e di successo. L’epicentro del melodramma verista era Milano, e a Paneropoli appunto, come Ugo Foscolo chiama la capitale lombarda, ossia ‘città della panna’, noi ci trovammo nella prima decade del secolo, in pieno fulgore ancora del puccinismo e del leoncavallismo. La vita teatrale si avvolgeva intorno alle due case editrici che si spartivano la produzione dei compositori di teatro, e che erano la casa Ricordi e la casa Sonzogno. Questa aveva la sua sede in via Pasquirolo, che più che una via di Milano sembra una calle di Venezia. Altro punto ‘veneziano’ di Milano era la via Fatebenefratelli, veduta al crepuscolo dal parapetto del ponte sul Naviglio e con lo sfondo della chiesa di San Marco fiancheggiata dal suo campanile alto e puntato; ma il coprimento del Naviglio, che da una parte ha contribuito a diradare il famoso nebbione di Milano, ha svenezianizzato dall’altra questo punto di Milano. La chiesa di San marco era stata scelta per la sua buona sonorità da Giuseppe verdi per eseguirvi la Messa di Requiem che Verdi aveva scritto per il primo anniversario della morte di Alessandro Manzoni, e dopo che altre chiese, compreso il Duomo, erano state scartate per la loro cattiva sonorità. Non si capisce dunque perché questo stesso Requiem, quando fu ripetuto in occasione della morte di Verdi, non fu eseguito nella chiesa di San Marco ma in Duomo. C’è in questo piccolo aneddoto la psicologia della scolaresca che in assenza del maestro… Come si sa, la proprietà delle opere di Verdi appartiene alla casa Ricordi, e così quella delle opere di Puccini ( che, dalle più recenti statistiche, risulta più rappresentato di Verdi; opera in capo alla classifica: la Bohème). E quando avremo aggiunto che la casa Ricordi è anche proprietaria per l’Italia delle opere di Wagner, sarà facile capire l’importanza e la potenza di questa celebre e antica casa editrice.
Sulla morte di Wagner, Gabriele D’Annunzio ha scritto nel Fuoco delle pagine commosse da quel gagliardo eroismo, che richiama alle illustrazioni di Adolfo De Carolis. Per quale ragione Adolfo De Carolis scriveva talvolta il suo cognome con K: De Karolis? Della morte di Wagner noi conosciamo una versione più modesta.
Avemmo la ventura di conoscere alcuni anni or sono un uomo irrequieto e arguto, figlio di un capostazione. Suo padre, campestre e dialettale, aveva la sorveglianza di una piccola stazione del Veneto. Un giorno un telegramma giunse in quella stanzioncella che annunciava il passaggio per l’indomani del treno che portava Riccardo Wagner a Venezia; e il capostazione, nella sua schietta ingoranza, tradusse in famiglia il telegramma così: ‘ Domani alle diciassette e qundici passa el Vanièr’. E l’indomani, all’ora indicata, il figlio del capostazione, curioso di sapere chi era el Vanièr, si piantò sul marciapiede della stazione, vide il treno arrivare, vide a un finestrino un signore rosso di pelo, a naso uncinato e ganascia a scarpa, che reggeva un libro con la sinistra e con la destra carezzava un cagnolino, e capì che el Vanièr era lui. Poi il treno ripartì e il bambino non ci pensò più. Qualche tempo dopo però, un altro telegramma avverte il capostazione che l’indomani, alle 16 e quarantotto, el Vanièr sarebbe ripassato; e l’indomani, alle 16 e quarantasette, il bambino torna a piantarsi sul marciapiede della stazione, vede il treno arrivare, lo vede ripartire, ma non vede al finestrino il signore rosso di pelo, col libro in mano e il cagnolino. Questa volta il signore rosso di pelo stava nel furgone di coda dentro una bara, e ‘viaggiava verso la collina bavàra ancora soptita nel gelo’.
Tanti conoscono a memoria i Leitmotive della Trilogia ( sic nel testo ): quel modesto funzionario delle FF.SS visse e morì senza sapere chi fosse quel misterioso Vanièr che ora arrivava e ora ripartiva.
La sede della casa Ricordi era in quel tempo in via Omenoni, vicino al palazzotto sorretto dai telamoni del cavalier Aretino. Si traversava l’uscio della portineria che annunciava il visitatore con un argentino ‘dan’, e si saliva al primo piano. Al mezzanino erano le stanze dei ‘riduttori’, ossia degli specialisti che riducevano a canto e piano o a pianoforte solo le partiture delle opere. Famoso fra i riduttori era il maestro Carignani, autore della riduzione a piano e canto e a piano solo della partitura del Falstaff. Un altro riduttore, che noi avemmo la ventura di conoscere personalmente, si chiamava Sollazzi ma era l’uomo più malinconico del mondo. Mite, chiuso con rassegnazione nella mediocrità della sua vita, nascosto dietro le lenti azzurre che proteggevano i suoi occhi miopi e stanchi di decifrare sui grandi fogli rigati di venti, trenta e trentadue pentagrammi le ‘zampe di mosca’ di tutti i ‘Grandi’ davanti ai quali egli si sentiva così piccolo.
Giulio e Tito Ricordi, padre e figlio, dirigevano unanimemente la celebre casa. Giulio era anche compositore di musica leggera ( autore fra l’altro di una Secchia rapita ) che firmava Burgmein. Se invece che musico Giulio Ricordi fosse stato letterato, si sarebbe scelto uno pseudonimo di sonorità francese: Rastignac. L’egemonia letteraria della Francia e musicale della Germania, era in quel tempo fuori discussione. Ridotto a forma di statua e collocato nel cortile della nuova sede della casa editrice in via Berchet n.2, questo vecchietto appuntito col temperalapis continua ad accogliere dall’alto del suo piedistallo i cantanti e le cantanti, gl’impresari, i maestri di musica: ma ora costoro gli passano davanti e non lo guardano neppure.
Nella sala d’aspetto, intorno a una grande tavola rettangolare sulla quale erano sparsi con pittoresco disordine i fascicoli di Ars et Labor, organo della Casa ( in questo titolo è tutto il profumo ‘socialista’ dell’epoca) sedevano in atteggiamento o di attesa febbrile, o d’impazienza, o di rassegnazione, o di noia, cantanti d’ambo i sessi, compositori, impresari, maestri, concertatori. Le cantanti più giovani, le debuttanti, quelle che tenevano gli occhi chini e le mani in grembo, erano accompagnate da altra donna più matura, madre forse o zia, o sciolta magari da qualunque vincolo di parentela, che gli uscieri chiamavano fra loro ‘il madro’. Capo degli uscieri era Palumbo, esempio vivo della fatale somiglianza che unisce l’uomo al proprio nome.
Il canto favorisce lo sviluppo del petto, e i soprani lirici, quelli drammatici, i contralti riuniti nella sala d’aspetto di casa Ricordi in attesa di scrittura, costituivano uno stupendo campionario di mammiferi. Su quella dovizia mammaria, su cui le ali del bolero non riuscivano a combaciare, i carré di trina galleggiavano a ritmo, come zattere sul mare. Gli occhi nerissimi erano pieni di rammi di Violette e di Amneris, di Floria Tosca e di Mimì. Al sommo, qualche coperchio posato su tanto ribollire di passioni, stava il cappello colossale e carico di uve opime, di frutti cananei, di galli cedroni ad ali spase, di piume e di ‘aspri’. Palumbo era uomo di esperienza antica, profondamente edotto delle simpatie o, come si dice in linguaggio psicanalitico, delle ‘cariche affettive’ dei suoi principali; e secondo che l’aspirante alla scrittura era acerbetta o maturona, ossuta o bene in carne, bionda o bruna, egli la indirizzava sia all’ufficio del commendatore Giulio , sia a quello del commendatore Tito. Talvolta, la capellatura gravata di un vascello a tre ponti, il corpo di sirena avvolto nelle spire del boa, una donna frusciante e odorosa traversava il vestibolo con imperioso tacco, guardava diritto davanti a sé, entrava perentoria e senza scorta, meno quella d’onore di Palumbo, nel reparto dei direttori. Nella sala d’aspetto i colli si allungavano, gli occhi uscivano dalle orbite, un gran nome correva su quelle bocche arrotondate dal do di petto: ‘ Hai visto?…
Lina Cavalieri!’.
In quel tempo la faccia rasata era ancora prerogativa degli attori e dei camerieri. Uno dei più spiritosi collaboratori del Corriere della Sera, non ricordo bene se Amedeo Morandotti o altri, scrisse a questo proposito che l’uomo rasato somiglia a una donna brutta. Tito Ricordi tuttavia era completamente rasato, e certamente teneva molto a questa sua condizione di glabrità, quando Madame Butterfly fece fiasco alla Scala ( celebri sono negli annali del teatro lirico alcuni fiaschi seguiti da clamoroso e persistente successo, come il Barbiere di Siviglia, la Traviata, la Carmen
e questa Butterfly ) egli fece voto di non più radersi né la barba né i baffi finchè durava la cattiva sorte di questa opera, e non si sciolse dal voto se non dopo la trionfale rappresentazione della Butterfly al teatro Grande di Brescia, che gli consentì di riacquistare la sua faccia di ‘donna brutta’.
Se casa Ricordi ha la proprietà per l’Italia delle opere di Wagner, casa Sonzogno in compenso è proprietaria per l’Italia delle opere francesi: Bizet, Massenet, ecc. Casa Sonzogno è anche proprietaria delle opere di Pietro Mascagni, Ruggero Leoncavallo, altri. In uno dei primi anni del secolo, Guglielmo II, le cui fragorose manifestazioni o politiche, o militari, o artistiche, o astronomiche ( al principio del secolo Guglielmo II annunciò che il secolo non cominciava nell’anno in cui tutti gli altri credevano che cominciasse ma un anno prima, al che alcuni spiritosi protestarono che questa anticipazione li invecchiava) erano ampiamente propagate dalla stampa dei due mondi, proclamò inaspettatamente che Ruggero Leoncavallo era ‘ il più grande compositore lirico dell’universo’. Questa notizia non rimase sterile, come generalmente è la sorte di notizie di tal genere, ma alcun tempo dopo i giornali fecero sapere che l’autore dei Pagliacci era ospite dell’imperatore a Postdam, a imitazione di Voltaire o di Francesco Algarotti, e stava lavorando a un’opera su un libretto che i bene informati dicevano scritto di pugno dallo stesso imperatore; e a suo tempo venne fuori il Rolando di Berlino che fu rappresentato nella capitale della Germania con gran fracasso di stampa e abbondante invio di gionalisti m usicali, ma che malgrado ciò non riuscì a toccare i fastigi della gloria. Strane preferenze aveva quel versatile monarca per i nostri artisti, e mentre fra i nostri musici preferiva Ruggero Leoncavallo, fra i nostri pittori preferiva Francesco Paolo Michetti, e con regale liberalità acquistava i quadri di questo pittore, che poi con liberalità altrettanto regale donava ai musei di Berlino.
Nel tempo in cui casa Ricordi aveva sede in via degli Omenoni, era l’epoca d’oro del melo- dramma verista. La Scala, il Dal Verme, il Carcano, il Lirico si contendevano le opere nuove. Fiorivano i melodrammi nella loro giornata breve: il Manuele Menendez di Lorenzo Filiasi, la Nave Rossa di Sepilli, una ‘seconda’ Cavalleria rusticana scritta da un maestro Monleone, di cui, se non andiamo errati, i giornali hanno annunciato or non è molto la morte avvenuta a Genova. Esordiva in quel tempo Riccardo Zandonai aol Grillo del focolare, e presso a poco nello stesso tempo aveva esordito anche Franco Alfano con Principe Zilha e con Resurrezione. Ogni sera un debutto: nella camera della pensione che andammo a occupare in via Oriani, dietro la Scala, trovammo un telegramma dimenticato dal nostro predecessore nel cassetto del comodino, che diceva: ‘ Debutto Tromben’ ed era firmato ‘ Delilier’.
Un’aura musicale avvolgeva la città, sonorizzava la morbida coltre di nebbia. Quando la buona stagione apriva le finestre, vocalizzi e gorgheggi uscivano da tutte le case. I gigioni signoreggiavano in Galleria. Paltò con martingala, bavero di castorino, bombetta ributtata sulla nuca. Tre, in un angolo, presso l’ingresso del Ristorante Economico, provavano le note di petto turandosi l’orecchio e riunendo le tre teste in una carambola perfetta. Nella mia pensione il tenore Borgatti cantava: ‘ Infrante son le catene…’ e a tavola il baritono Pacini si faceva servire un intero occhio di bue e pasteggiava ciclopicamente. Borella, ufficiale di cavalleria che aveva lasciato l’Esercito per dedicarsi ai libretti d’opera, una sera, in salotto, improvvisò alcuni senari a una giovane scandinava, venuta a Milano a farsi ‘ impostare’ la voce:

O bionda figurina
Che tutta in te nauni
La bellezza divina
Del volto e del sentir,
Non mi guardare ché affanno
A volta a volta e gioia
Gli occhioni tuoi mi danno
E non li so fuggir…

Se non quelli di Borella, i libretti di Illica e Giacosa erano considerati opere di poesia, e i versi di Giacosa, che in quei libretti aveva la speciale cura della verseggiatura, erano mandati a memoria:

O belle mani

Mansuete e pure

                                                              O mani elette

Ad opere pietose:
A carezzar fanciulli,
A coglier rose…

La confetteria Cova era in quel tempo il centro intellettuale di Milano, e tra le cinque e le sei Giacomo Puccini veniva al Cova a prendere un cappuccino col petibùrr, perché i filologhi di buona volontà non avevano ancora provveduto in quel tempo a rinettare il nostro vocabolario di tutti i barbarismi che lo deturpano e a sostituirli con voci di pretto conio italiano.
Il tenore Borgatti, che nella nostra pensione cantava l’aria di Sansone ed è stato un famoso Sigfrido, ha avuto una sorte tragica, ma che nella vita di un cantante può essere considerata fatale: è diventato cieco. Alle Canarie accecano i canarini per farli cantare meglio e, per figura, anche i rapsodi erano ciechi. Per questo la leggenda rappresenta Omero con gli occhi alzati al cielo ma torbidi e senza sguardo, quasi il buio degli occhi sia necessario perché la voce dia maggior luce.
                                                                                                          Nivasio Dolcemare



                    Musica: Le nove sinfonie ( novembre-dicembre 1942)

Ho accennato altre volte all’inversione che io do all’ordine d’importanza e di valore delle nove sinfonie di Beethoven, anteponendo la Seconda, la Quarta e l’Ottava alla Terza, alla Quinta e alla Nona, e la Prima a tutte, e lasciando come in un ‘limbo’ la Sesta e la Settima. Anche al criterio che mi ha guidato in questa inversione ho accennato altre volte, ma tornando ad accennarvi non credo d’incorrere in peccato di ripetizione.
L’arte è una condizione d’innocenza. Non si dica tuttavia che l’arte è al di là dal bene e dal male. L’arte è di là dal male, ma quanto al bene essa lo contiene in sé. Si distingue l’arte vera dall’arte falsa, dal che l’arte vera ci rapisce di là dal male, mentre l’arte falsa ci lascia ancora nel mondo del male e non ci fa sentire la felicità, la purezza, l’innocenza di un mondo senza male.
L’arte è una continua ricerca dell’innocenza primitiva, dell’innocenza perduta. Non è soltanto il ricordo del paradiso perduto, ma è anche, e soprattutto, il tentativo di ritrovarlo.
Delle nove sinfonie di Beethoven la Prima è la più bella, perché la più vicina all’innocenza del paradiso terrestre. Le altre via via sono dei tentativi sempre più lontani, sempre più disperati, sempre più esasperati di ritrovare l’innocenza e la felicità della Prima sinfonia. E se l’andante della Settima è una danza, essa è una triste danza davanti alle chiuse porte del Paradiso.

Un genio agenio


Le storie della musica pongono Ettore Berlioz nella categoria dei ‘ rivoluzionari’. Che ettore berlioz fosse un rivoluzionario, nessuno si sogna di contestarlo. Che dico rivoluzionario ? Berlioz era un genio. Per meglio dire Berlioz possedeva tutti gli attributi del genio: inquietudine, angoscia, nevrastenia, amori frenetici e diversi, umore nero, irritabilità, infelicità, povertà, salute cagionevole; e i caratteri somatici pure: naso aquilino, occhi inofssati, magrezza spaventosa. Gli mancava soltanto la musicalità: il che, per un musico, è abbastanza grave. Fino alla morte, Berlioz aspettò ‘ la sua ora’. Morto lui, l’ora di Berlioz ciontinuano ad aspettarla i suoi ammiratori; i quali però non sono molti, nemmeno in Francia. Quanto a me, io credo che l’ora diBerlioz non verrà mai. Né c’è ragione che venga. C’è in lui qualche cosa che ‘non funziona’. E’ come della musica fatta col legno. Il meglio che ci rimane di lui, è forse il ritratto che gli ha dipinto Courbet.

Ndr. Ai due altri brevi capitoletti della rubrica, intitolati rispettivamente ‘ Strawinski’ e ‘Strawinsky e l’ironia’, presenti – come abbiamo già segnalato - in Scatola Sonora, manca una nota riportata da Documento, e che qui vogliamo, di conseguenza, riprodurre. ‘ Nella musica di Strawinsky, nonostante la sua riconosciuta originalità, si possono fare gl’incontri più impensati. Così, nel secondo tempo del Concerto per piccola orchestra in sol ( Dumbarton Oaks) si trova un tema della Sinfonia n. 1 di Martucci. Incontro da segnalare, perché qui non si tratta di quegl’incontri che Strawinsky fa a ragion veduta, come l’incontro col tema del Barbiere in Jeu de cartes’.
                                                                                                                      Perseo






                                     Musica: Poliuto col basco ( gennaio 1943)

Prima che alla prima, ho assistito alla prova generale di Poliuto. Attesti anche questo particolare il mio zelo di critico musicale. Del resto non io solo assisto alla prova generale delle opere, ma tutti coloro che come me fanno professione di critici musicali. E’ un’abitudine ed è una necessità.
Lo spettacolo della prova generale non differisce essenzialmente dallo spettacolo della prima rappresentazione e da quello delle rappresentazioni successive: è uno spettacolo già completo e pronto per il pubblico. Differisce invece la situazione dello spettatore, la quale alla prova generale è alquanto simile a quella dell’infelice Luigi di Baviera, allorchè solo in un palchetto in mezzo al teatro vuoto e nascosto dietro una gratella dorata con la porporina, egli ascoltava per suo uso esclusivo e in pieno rapimento i melodrammi del suo diletto Riccardo Wagner.
Ho associato al nome di Luigi II l’aggettivo ‘infelice’ non per conformarmi io pure a un’usanza banale, sì per ricordare la singolare forma d’infelicità di questo ofelio monarca; il quale infelice non era perché mancasse di condizioni di felicità, ma perché i suoi desideri erano infinitamente maggiori alle umane possibilità di godere. E’ buon precetto d’igiene nutritizia levarsi da tavola con un residuo d’appetito: Nietzsche per parte sua consiglia nell’ Ecce Homo di riempire completamente la capacità dello stomaco, ma tuttavia non dice di superarla. Questa sproporzione fra desiderio e possibilità di godimento è la ragione profonda perché Luigi II si porta così meritatamente il titolo di ‘grande romantico’, perché il senso del romanticismo è tutto in questo desiderare ciò che possedere non si può, e stupisce che nessuno finora abbia pensato di considerare il senso romantico della vita, così vivo in molti uomini, in molti artisti, in molti poeti, in molti popoli, come una delle più ampie e feconde forme di masochismo. Leggete dell’angelico Apollinaire una minuscola narrazione intitolata Re Luna, nella quale spiritosamente trapela la misteriosa ed affascinante figura di Luigi di Baviera: Affascinante del pari è la lirica, la mecenatesca amicizia che Luigi di Wittelsbach nutriva per Riccardo Wagner, a patto però di considerarla da lontano; perché avvicinata all’occhio questa fulgida amicizia perde di fascino, e sbiadisce al crudo lume di certi soldi richiesti da una parte e negati dall’altra.
Torniamo alla prova generale del Poliuto. Alla prova generale il reparto delle poltroncine nel Teatro Reale dell’Opera è folto di spettatori oscuri che vagolano come ombre dell’Ade e si palpano l’un l’altro per riconoscersi, mentre il reparto più vasto delle poltrone è vuoto invece di spettatori e però la sala in penombra, rischiarata dalle sole luci del palcoscenico e molto debolmente quando sul palcoscenico si rappresentano quelle scene notturne che nei melodrammi sono purtroppo tanto frequenti, somiglia a una faccia virile che in parte si è fatta la barba e in parte non se l’è fatta.
Quando il primo atto è finito e tre occhi si accendono lassù nell’aereo lampadario e lasciano piovere nel sottostante baratro tre amare lacrime di luce, e gli spettatori delle poltroncine possono finalmente riconoscersi fra loro e si accorgono con raccapriccio che colui vicino al quale durante l’atto avevano anche sussurrato le loro più intime confidenze essi non lo conoscono affatto, arriva il commendatore Giuseppe Maria Viti, amico e guida dei critici musicali e capo dell’ufficio stampa del Teatro reale dell’Opera, e a noi docili e grati distribuisce il ‘santino’, cioè a dire un foglietto di carta sul quale è riassunto il libretto dell’opera, che il critico musicale afferra subito con amore e va in un angolo del ridotto a impararselo a memoria. Non so chi per primo abbia dato a questo foglietto di carta il nome ‘santino’, ma si tratta indubbiamente di uomo di finissimo intelletto, perché nulla somiglia tanto al catechista che distribuisce immagini sacre ai catechizzati, quanto il commendatore Giuseppe Maria Viti che con gesto pieno di dolcezza distribuisce a noi critici mansueti il soggetto del melodramma che si sta rappresentando.
Per insolito caso, alla prova generale di Poliuto lo spettacolo era incompleto: incompleto in minima parte ma tuttavia incompleto. Scenari, luci, costumi, ogni cosa era apprestata per lo spettacolo, solo che tre dei personaggi principali, e cioè Poliuto, Severo e Paolina non erano in costume ma vestiti come voi e me. Poliuto il pio magistrato di Mitilene era impersonato da Beniamino Gigli, il quale portava un completo di stoffa scura con giacca a doppio petto e un basco stretto al capo e leggermente calato sull’orecchio; Paolina la sposa di Poliuto era la signora Maria Caniglia, la quale portava una pelliccia di visone tre quarti e delle scarpe ortopediche; Severo il proconsole dell’Armenia era il baritono Gino Bechi, e questi, se la memoria non mi tradisce, portava una giacca marrone a martingala e una vitamaglia di colore cupo ( vitamaglia è un nuovo vocabolo proposto dall’Accademia per sostituire i vocaboli stranieri che presso di noi significavano farsetto).
In una mia nota sul Poliuto pubblicata giorni sono in altra sede, dicevo lo sforzo che quest’opera di gaetano Donizetti fa per uscire dal suo caos originario alla luce, e la sua angoscia perché non ci riesce. L’impressione è quella di un fantasma che non diventa corpo, di una voce che non diventa parola, di un suono che non diventa musica; intendendo la musica in questo caso nel senso di ottocentesco melodramma italiano, ossia di una serie di ‘pezzi’ peregrini e ben riusciti, che anche la prima volta che tu li odi ti fanno l’effetto di vecchie conoscenze e con dolce prepotenza ti si allogano dentro il cavo dell’orecchio. Voglio dire con questo che la musica del Poliuto non mi sedusse né mi rapì, e l’impressione più viva che io ebbi alla prova generale di questo melodramma incerto come Amleto tra l’essere e il non essere, me la diede l’inaspettato e spiritoso aggirarsi sulla scena, e gestire, e cantare di quei tre personaggi dei nostri giorni, in mezzo a edifici e a personaggi dell’” anno 257 di nostra salute”, com’è detto nel libretto di Salvatore Cammarano.
Il Caso, e in sua vece la sartoria del teatro reale dell’Opera aveva dato la più inaspettata soluzione
al problema della messinscena: soluzione inaspettata e assieme felice.
Teatro vale per ‘cosa degna di essere veduta’ e in altre parole ‘ cosa che attira lo sguardo’, e nessuno vorrà negare che un proconsole che entra in scena su una biga dorata come una confettiera di nozze, reggendo lo scettro del comando in mano e vestito di una giacca a martingala, attira molto più lo sguardo di un proconsole che entrasse in scena fornito degli attributi proconsolari e vestito della toga regolamentare. Il simile si dirà di una patrizia romana che si accinge a farsi divorare dai leoni del circo in scarpe ortopediche e pelliccia tre quarti, e di un neofito del secondo secolo che si prepara alla stessa morte in completo a doppio petto e basco sulle ventitrè.
A fine di rompere la monotonia della rispettata verità storica, alcuni teatranti più fantasiosi avevano staccato le opere di teatro dal loro tempo nativo e trasportate nel nostro; e Amleto per merito di Max Reinhardt, Orfeo per merito di Cocteau, Ulisse per merito mio avevano rotto gli ormeggi storici ed erano riemersi fra noi più vivi, più confidenziali, più poetici persino; perché anche la poesia vuole scaldarsi al calore del nostro presente e lontana da noi si raffredda e intristisce. Nella quale occasione i soliti stupidoni non mancarono di gridare all’iconoclastia, loro che non si erano mai sognati di protestare perché Giovanni Bellini fa ritornare Ulisse a Itaca in abito non del tempo di Ulisse ma del suo proprio. Ma a che si riducono queste totali trasposizioni da un tempo in un altro tempo, a petto al ‘naturale’ incontro di uomini del nostro tempo con uomini del secondo secolo dopo Cristo?
Questo vedemmo noi quel giorno alla prova generale del Poliuto, nella sala del Teatro Reale dell’Opera rasata per metà; e quelle sono cose che, vedute una volta, ti si figgono nell’occhio e non le dimentichi più.
Come crederemo in avvenire che quello è Poliuto, magistrato di Mitilene e candidato alla palma del martire, e non porta il basco sulle ventitrè?
                                                                                                Nivasio Dolcemare




                                       Musica :Indelicatezza ( giugno 1943)

Giorni fa e lemme lemme, mi andavo ripassando il ‘Clavicembalo ben temperato’ al pianoforte in una edizione curata da Ferruccio Busoni. Per poco che si sia colti in materia musicale, si sa che Giovanni Sebastiano Bach è il meno mattacchione dei musici, il più austero, il più sacerdotale. Queste sapienti reazioni armoniche, questi elaboratissimi precipitati contrappuntistici partecipano meno degli edonistici ludi della chimica pura, e a ragioni veduta il loro autore è da considerare il fondatore di quella Farbenindustrie di cui la Germania a buon diritto va orgogliosa. La musica di Giovanni Sebastiano, così profondamente religiosa, non è certo la più indicata ad allietare le notti di una compagnia di bookmackers ubriachi di gin, ma in compenso testimonia di una ispirazione così casta, di una dignità così alta, di uno stile così compiuto che a riguardo di essa ben si può parlare di ‘musica pura’ e nel significato acquisito, e soprattutto in quello letterale. Se c’è musica al mondo che basta a se stessa né ha bisogno di commenti e didascalie, questa è appunto la musica di Giovanni Sebastiano Bach. Molto ho stupito dunque l’altro ieri pescando tra le chiose interprettative anteposte dal buon Busoni a ciscuno di questi mirabili chimismi sonori, perle di questa fatta: ‘Andante con un certo sentimento severo’, ‘ Andantino idillico’, ‘Andantino lusingando’ (?),
Allegro volante’, ecc. ecc. Qui non è più quistione di proprietà: è quistione di tatto. Annotazioni così licenziosette non s’affarrebbero neppure allo spartito di ‘Funiculì-Funiculà’: usarle nell’opera di colui che Beethoven chiamava der Urvater der Harmonie, il Patriarca dell’Armonia, è come inchinarsi a una vecchia duchessa paralitica e supremamente formalista, e invitarla a ballare la carioca.


                                                                                                           Nivasio Dolcemare

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