lunedì 30 gennaio 2017

Alberto Moravia. La Musica per me (I I)


                     ALBERTO MORAVIA. II   di Pietro Acquafredda


                                Alberto Moravia. La Musica per me



Accingendoci a rileggere tutti gli scritti 'musicali' di Alberto Moravia, fin qui reperiti - i suoi testi, cioè, che parlano direttamente di musica: nella gran parte riflessioni o brevi saggi - non sembri superfluo liberare subito il campo da qualche equivoco che alcuni di essi potrebbero generare, a causa dei titoli, ma solo per quelli, mutuati da celebri melodrammi; mentre sulla musica in questi testi non si legge una sola parola.
Aggiungiamo che i testi di argomento musicale di Moravia sono in numero assai modesto, per nulla paragonabili a quelli sul cinema e sul teatro, ma anche sulla pittura - ai quali pure accenneremo - settori che lo scrittore padroneggiava con sicurezza e professionalità, avendo al cinema ed al teatro, accanto a quella di romanziere, dedicato parte consistente della propria attività, senza che ciò debba, affrettatamente, farci concludere su una sua sostanziale estraneità e totale indifferenza al mondo della musica.
Avremmo potuto affrontare l'argomento più generale, 'Moravia e la Musica', anche prendendo in considerazione le musiche che hanno accompagnato i numerosi spettacoli teatrali scritti direttamente dallo scrittore - che dichiarava un suo particolar sforzo ed interesse a ricondurre la scrittura narrativa ad uno stile teatrale - o tratti dai suoi romanzi, se in esse fosse stato possibile leggere, anche in filigrana, un 'intervento d'autore' dello scrittore, pur limitato alla scelta dei musicisti. Ma si sa che, in linea di principio, la musica, come gran parte degli altri elementi che costituiscono uno spettacolo teatrale, sono da ricondurre direttamente sotto la responsabilità del regista; e, inoltre, le locandine dei suoi spettacoli teatrali sono lacunose, sotto il profilo delle 'musiche di scena'. Le uniche notizie forniteci dai repertori che, invece, contemplano anche gli autori delle musiche, ci dicono dell'ingaggio di Fiorenzo Carpi ( per La Mascherata, regia di Giorgio Strehler), di Sergio Liberovici ( per L'intervista, regia di Roberto Guicciardini) e di Benedetto Ghiglia ( per La cintura, regia di Guicciardini): musicisti di nome per spettacoli di qualità di un autore all'apice del successo; e, infine, di Davide Pennati, attivissimo sulla piazza milanese nel campo della canzone d'autore, che scrisse le musiche per la riduzione de La noia, a cura di Mario Leone, il cui 'motivo conduttore' intitolato 'Moderno Blues' , di soli cinque righe di musica, senza accompagnamento, manoscritto, è conservato nell'archivio Moravia.
La nostra indagine, poi, alla lettura di alcune dichiarazioni dello stesso Moravia, rese in diverse occasioni ed a diversi interroganti, ha rischiato una brusca interruzione, fra cui quella resa ad Alessandro Gennari, e ripresa recentemente nella vivace e singolare biografia, formato 'mini', dello scrittore, da Giorgio Dell'Arti ( Alberto Moravia, sono vivo sono morto, Edizioni Clichy): “ La musica mi piace molto, lo sai che una volta, per gioco, ho detto a Barilli, il critico musicale: vuoi vedere che scrivo una recensione musicale uguale alla tua? Gliel'ho scritta su un tavolino del bar, in pochi minuti, lui l'ha letta e poi l'ha pubblicata con la sua firma” che attesterebbe una sua particolare sensibilità musicale ma anche una sua capacità intuitiva e facilità di scrittura; che, però, viene messa in dubbio, se letta parallelamente ad un'altra dichiarazione in cui affermava che il suo programma preferito in tv era il canale Videomusic; e, rispondendo a Antonio Debenedetti, che gli faceva notare che ci sentiva poco: vedo i colori...” . Ma lo scrittore scherzava o diceva il vero? Il dubbio resta.
Ci hanno convinto, alla fine, a proseguire nell'indagine alcuni interventi propriamente musicali, via via scoperti e che costituiscono l'ossatura di questo lavoro, ma anche le rassicurazioni di Dacia Maraini - compagna dello scrittore per molti anni - sulla sensibilità musicale, frutto di un certo interesse per la musica stessa, di Moravia, e la cui intervista pubblichiamo, in appendice, a conclusione e coronamento di qusto studio.
Il quale procede in siffatta maniera. Dopo un rapido accenno all'attività di critico teatrale e cinematografico di Moravia, libereremo il campo dagli equivoci nei quali potrebbero indurci i titoli, tratti da celebri melodrammi, di alcuni racconti; proseguiremo con l'esame del Moravia librettista e autore di testi per canzoni; entreremo nella Casa/Museo dello scrittore, per dare un'occhiata alla biblioteca ed alla discoteca, per terminare con l'illustrazione dettagliata dei suoi scritti di contenuto musicale. In appendice, il libretto dell'opera di Gino Negri, Vieni qui Carla, da Gli indifferenti, inedito, ed i testi delle due Canzoni per Laura Betti,oltre ad un testo di presentazione del Festival di Spoleto, apparso nel numero unico della prima edizione(1958) del festival di Menotti, introvabile e difficile da reperire.


Teatro e cinema. Ma anche pittura
L'attività teatrale di Moravia, come autore, ha radici lontane - è del 1948 il suo primo testo teatrale, Gli indifferenti, dall'omonimo romanzo - ed arriva fino agli anni Ottanta, 1986, con La cintura - come anche quella cinematografica, per la quale, senza considerare che dai suoi romanzi sono stati tratti molti film con il suo stesso concorso, giova ricordare che il suo primo testo cinematografico, inedito, in veste di soggettista e sceneggiatore, Billo, risale al 1938; e che la critica cinematografica è stata una costante della sua attività: nel 1945-46 per la La Nuova Europa e Libera Stampa; dal 1950 al 1954 per L'Europeo, e dal 1957 al 1989 per L'Espresso (una selezione degli articoli di critica cinematografica de L'Espresso è stata pubblicata da Bompiani nel 1975, con il titolo Al cinema, 148 film d'autore).
Si possono leggere anche altrove sue riflessioni sul cinema e teatro, disseminate in vari scritti, saggi e interventi, come quelli usciti sul mensile Documento nel corso del 1942. Il primo, dal titolo Letteratura e cinema, sul numero doppio (nn.7-8, luglio-agosto 1942) della nota rivista ; il secondo, dello stesso anno, ma sul numero, anch'esso doppio (nn.11-12, novembre-dicembre 1942) dal titolo Teatro e cinema; ambedue i contributi destinati a numeri 'speciali', monografici di Documento, sul cinema l'uno, sul teatro l'altro. Moravia ha scritto molto anche di pittura, presentando o recensendo mostre di pittori, taluni anche suoi amici; di tale interesse resta traccia nelle importanti opere presenti nella sua casa/museo.


Rigoletta, Serva padrona, Don Giovanni
Si accennava ai testi, il cui titolo potrebbe far ipotizzare qualche rapporto con la musica - che invece non c'è. Tre racconti in tutto, pubblicati in epoche diverse.
Il primo, La serva padrona ( in Nuovi racconti romani, 1959, Bompiani) ha in comune con l'omonima celeberrima opera di Pergolesi, nient'altro che il titolo, e la storia di una serva che diventa padrona; in circostanze, nei due casi, differenti.
Nel secondo, Rigoletta ( in Nuovi racconti romani, 1959, Bompiani) Moravia prende spunto dal deforme personaggio protagonista della celebre opera verdiana, Rigoletto, per il nomignolo da affibbiare ad una ragazza, protagonista del racconto, che si crede tanto bella da non riuscire neanche a vedere i propri difetti fisici, anche se non ha la gobba come il personaggio verdiano.
Il terzo, infine, Serata di Don Giovanni, pubblicato in coppia con Due cortigiane dalla casa editrice L'Acquario, 1945, con illustrazioni di Mino Maccari, ( in Alberto Moravia. Opere/2. Romanzi e Racconti 1941-1949. A cura di Simone Casini. Bompiani. Classici 2002), come gli altri, nulla ha da spartire direttamente con il celebre libertino mozartiano, mito ricorrente della letteratura, ad eccezione della storia del protagonista, di nome Giovanni. Il suo rapporto con le donne - fra le quali c'è anche una certa Elvira, come l'altro personaggio dell'opera di Mozart - nasce, si legge, da “una curiosità di collezionista che desideri possedere tutta la serie di oggetti di cui fa la raccolta”, che ci fa venire in mente il catalogo “delle belle che amò il padron mio”, cantato da Leporello. Del suo collezionismo 'femminile', il Giovanni di Moravia dà una spiegazione psicologica all'amico curioso di sapere come e dove egli trascorra sere e notti. ”E' il risultato - si giustifica - del mio desiderio di rimanere libero... Lo ero di meno quando amavo una sola donna e questa mi tradiva... quella volta mi accorsi quanto sia amaro e umiliante aver messo tutto se stesso nelle mani di una persona... e non aver nulla in riserva su cui ricadere nel caso che questa persona non apprezzi un amore così esclusivo”.

Moravia librettista per Peragallo
Due sono le occasioni in cui lo scrittore affida in prima persona un suo testo alla musica. Tralasciando il caso delle due canzoni per Laura Betti, di cui ci occupiamo dettagliatamente più avanti, il primo e più consistente, vede Moravia 'librettista' occasionale del musicista Mario Peragallo ( non sappiamo se lo scrittore in prima persona, o il compositore, autonomamente, in base all'economia della musica, con il successivo, scontato placet dello scrittore ), operando una riduzione consistente - più che una riscrittura dell'originale, con la sola aggiunta del brevissimo 'Quadro terzo' conclusivo, 'corale' - di un suo racconto breve, datato 1945, che l'autore in una lettera (8 ottobre 1953) definisce 'novella'( “...a Milano si daranno due cose mie: La mascherata al Piccolo Teatro e un'opera in un atto del maestro Peragallo tratta dalla mia novella Andare verso il popolo insieme con un'altra opera di Menotti...”) e intitolato Andare verso il popolo (in Alberto Moravia. Opere/2. Romanzi e Racconti 1941-1949. A cura di Simone Casini. Bompiani. Classici, 2002), che nell'opera di Peragallo, assumerà il titolo La gita in campagna (libretto in Alberto Moravia. Teatro Vol. II. A cura di Aline Nari e Franco Vazzoler. Bompiani,Tascabili 2004), andata in scena alla Scala il 24 marzo 1954.
La gita in campagna debuttò assieme a due altri atti unici: La figlia del diavolo, esordio operistico di Virgilio Mortari, su testo di Corrado Pavolini; e Amelia al ballo di Giancarlo Menotti, scritta nel 1937, con alle spalle un successo consolidato , che ebbe il compito di concludere positivamente la serata che con l’opera di Peragallo/Moravia aveva toccato il suo punto più contrastato.
Per la cronaca, il direttore del trittico di opere contemporanee fu Nino Sanzogno; e, nel caso dell’opera di Peragallo/Moravia, la regia fu di Enrico Colosimo; i bozzetti per scene e costumi di Renato Guttuso, e direttore dell’allestimento fu Nicola Benois.
L’opera racconta di una coppia di giovani, Ornella e Mario, che in una ‘Topolino’ girano per la campagna romana, nell’inverno del 1944. La loro macchina è in panne, serve acqua per il radiatore, e Mario pensa di andare a prenderla in una capanna poco distante; approfitterà anche per condurre le sue indagini di cronista sulle condizioni del popolo, a guerra appena finita. Giungono alla capanna - nel corso del cammino Ornella, prima riluttante, si fa baciare da Mario - dove vive in miseria una famigliola. La contadina, di nome Leonia, dà a Mario un recipiente e gli indica il pozzo, dove attingere l’acqua; là c’è suo marito, Alfredo. Leonia, restata sola con Ornella, la deruba di tutto, lamentando l’assoluta mancanza di ogni cosa. Quel poco che aveva la sua famiglia glielo hanno portato via i tedeschi. Medesima sorte toccherà a Mario, il quale con Ornella, ambedue quasi nudi, raggiungono la macchina per far ritorno a Roma. Prima di partire circondano la topolino altri contadini e ragazzi che chiedono la carità, perché a loro volta furono derubati di ogni cosa dai tedeschi. Per fortuna la macchina riparte, mentre il gruppetto li insegue invano, gridando ‘la carità, fateci la carità…’.
Con l’opera di Peragallo/Moravia, la cronaca fece irruzione nel melodramma, come aveva già fatto nel cinema neorealista italiano, che tanta influenza ebbe nello sviluppo della cinematografia mondiale.
Nel presentare l’opera, sul programma di sala della Scala, Massimo Mila accennava alle difficoltà in cui si dibatteva l’opera lirica che attendeva ancora chi avrebbe raccolto il testimone di Mascagni, Giordano, Zandonai, mentre allora contavano i nomi di Pizzetti, Casella, Malipiero i quali avevano percorso strade proprie ed alternative rispetto alla tradizione. A Peragallo, che già aveva dato al teatro altri titoli prima della Gita, si guardò come a colui che poteva ripetere i successi dell’ultima grande scuola italiana del melodramma. Che era poi anche la segreta speranza dello stesso Peragallo il quale dopo i successi delle sue precedenti opere ( Ginevra degli Almieri, 1937; Lo stendardo di San Giorgio,1941), e dopo un periodo di crisi compositiva, tacendo quasi del tutto, ora si rimetteva all’opera, forte di alcune prove strumentali ben accolte. Sulla sua sincerità, nell’assoluta autonomia del nuovo linguaggio musicale, era pronto a scommettere lo stesso Mila, che sottolineava: ”il particolare biografico che Peragallo non abbia alcun bisogno dei diritti d’autore per condurre una vita più che passabile, cessa di essere una futile indiscrezione e diviene invece elemento da tenere in conto come indice della sua assoluta sincerità, anche in questa prima fase di attività artistica”. Insomma, voleva dire Mila, Peragallo è ricco e quindi se intraprende una strada nuova, abbandonando quella passata che gli aveva meritato un bel successo, non lo fa per guadagnarsi da vivere con i diritti d’autore, puntando sulla novità per la novità, e dunque va considerato sincero e meritevole di fede ed attenzione, nonostante che nello specifico si fosse avvicinato alla dodecafonia. Egli che, a differenza di molti compositori dell’avanguardia musicale dell’epoca che avevano amoreggiato anche con la dodecafonia, veniva dal teatro tradizionale ottocentesco. Peragallo aveva cioè lasciato il certo per l’incerto e per il difficile: deciso ad andare per la propria strada, mentre parallelamente era già spuntato il partito di chi aveva smesso di scrivere musica per i critici e i colleghi ed aveva ‘tentato di stabilire intorno a sé un contatto umano’ ( antenati dei cosiddetti neoromantici, neomelodici, neotonali?). Peragallo sta lontano dall’uno e dall’altro schieramento, quando scrive La gita in campagna, come annota Mila, nella presentazione dell’opera: ”Peragallo si è accostato nuovamente all’opera musicale, con la volontà di farsi capire e seguire, e nello stesso tempo di non abdicare a quella decenza di stile cui dovrebbe restar fedele ogni musicista onesto. Proprio nella difficoltà di tale tentativo, concludeva Mila, va cercata la ragione per cui Peragallo s’è mantenuto nel ristretto cerchio dell’atto unico, meno rischioso, rientrando nel mondo dell’opera quasi in punta di piedi; ha voluto lanciare un segnale nella speranza che qualche altro musicista lo colga, evitando, perfino, di raccogliere ‘le insinuazioni di amarezza sarcastica' che erano implicite nel racconto di Moravia”.
Luigi Pestalozza su Il Verri ( n.4, dicembre 1958), scriverà anni dopo, a seguito della ripresa romana, per l'Accademia Filarmonica (26 febbraio1958, al Teatro Eliseo)
dopo che l’opera era stata ben accolta all’estero, che La gita in campagna ha rappresentato l’unico tentativo serio della musica italiana di inserirsi, e di prendere posizione, sulle questioni di fondo, sui conflitti umani che segnano i nostri giorni…”. E ancora, che Peragallo “ha saputo conciliare l’engagement sociale con l’avanguardismo musicale, ed è approdato ad un risultato di comunicazione, di espressione, di stile e dunque di originalità”, il che - spiega - vuol dire che Peragallo ha compiuto “un tentativo, fuori d’ogni demagogico semplicismo di ricondurre la nostra musica, il nostro teatro musicale ad una tematica realistica”.
Di parere diverso Guido M. Gatti: “La gita in campagna suscita ilare stupore e fiere proteste. Vuole 'épater le bourgeois' per l'emancipazione del racconto alla brava di Alberto Moravia che celia alla sua maniera spericolata su misere cose di una misera gioventù d'oggi. La musica di Peragallo si fa sempre più avventurosa e spiccia dacché ha lasciato la via intrapresa agli inizi”( ne Il teatro alla Scala.1778-1958. Pag. 453).
Invece Fedele d'Amico mette la croce sulle sole spalle di Peragallo, cui si deve la scelta dell'argomento ed ancor più del libretto: ”Il difetto di quest'opera è nel libretto, che ricalca passivamente la novella nell'illusione che un dialogo possa sostituire un'azione scenica; la quale dovrebbe invece avere un suo ritmo. Specie in un assunto comico, è difficile fare a meno d'una sceneggiatura che conduca coscientemente la dinamica degli affetti.... E tuttavia il bilancio dell'opera (considerando soprattutto l'elemento musicale, ndr.) mi pare largamente in attivo, nonostante il suo clamoroso insuccesso presso gli abbonati della Scala”, il cui pubblico, d'Amico bolla senza mezzi termini, quando scrive che il comportamento da questi tenuto durante la rappresentazione “giustifica ancora una volta la sua fama di essere, senza confronti, il pubblico più villanzone del mondo”. (Fedele d'Amico, I casi della musica, Il saggiatore, pagg.18-19). Di opposto parere è Massimo Mila che, in occasione della ripresa romana del 1958, scriverà che “il testo è uno dei più stimolanti che si possano incontrare nel teatro lirico... proprio in ragione della estrema intelligenza del testo, musica ce n'è relativamente poca...” ( L'Espresso, 9 marzo 1958)
Fin qui i pareri e le reazioni degli addetti ai lavori. E il pubblico?
Ci vengono in aiuto alcune cronache autorevoli di quei giorni milanesi. Pasquale Festa Campanile (La Fiera Letteraria) va a sentire lo stesso Moravia, che di lì a pochi giorni, il 14 aprile, avrebbe assistito a quello che egli considerava il suo vero debutto drammatico, con Commedia tragica (da La mascherata), regia di Strehler, al Piccolo Teatro di Milano. E ne scrive nel suo pezzo, intitolato Due ciabatte a teatro.
E’ andata malissimo - gli disse tranquillamente Moravia - peggio di così non poteva certamente andare. Debbo dire, comunque, che quello della Scala è un pubblico provinciale. Esso si è comportato male perché è venuto a teatro con l’idea preconcetta di far giustizia sommaria. Hanno tirato due ciabatte sul palcoscenico: quindi le ciabatte se le erano portate da casa. Forse su questo comportamento hanno influito le idee politiche e le scene di Guttuso per esempio. Forse è stata l’irritazione per un argomento sgradevole, neorealistico direi. La presenza di due poveri sulla scena ha fatto pensare che si trattasse di un’opera di sinistra, mentre era semplicemente un grottesco. A mio avviso non c’era motivo per una protesta così violenta e, in ogni caso, si poteva aspettare la fine dello spettacolo. A me personalmente la musica dodecafonica di Peragallo è piaciuta come del resto è piaciuta a tutti coloro che se ne intendono”.
Per la cronaca della serata, Festa Campanile annotò: “ Fu forse la presenza sulla scena di una macchina vera - una Topolino A. balestra lunga ( e alla Scala non s’era mai vista una cosa del genere) - a sconcertare il pubblico fin dall’inizio. Oppure fu l’apertura sociale intravista da qualcuno e sottolineata dalle scene di Guttuso; o, in effetti, la musica di Peragallo. Certo è, per la cronaca, che alla fine dello spettacolo il pubblico mostrò i pugni tesi agli autori e si mise a scandire ‘Buffoni, buffoni’. Sul palcoscenico arrivarono perfino due ciabatte, lanciate dal loggione. Il giorno successivo, in sede di resoconto, un quotidiano spingeva la sua critica, al punto di scrivere:’Quanti milioni sarà costato l’allestimento di quest’opera alla Scala? A proposito di aperture sociali, non sarebbe stato meglio offrirli, per esempio, al soccorso invernale?”.
Certamente quanto accadde quella sera alla Scala non incoraggiò successivamente Moravia a intrecciare altre volte la sua opera al melodramma; ma, forse, più semplicemente nella sua attività di scrittore si sentiva estraneo al mondo dell’opera lirica, che pure ammirava, come dichiarò in seguito: “ per me l'opera lirica ha il valore che poteva avere cento o duecent'anni or sono... la particolare esperienza culturale e artistica dell'opera lirica... non è cambiata, ed è insostituibile e inconfondibile...”. (Sipario, 1964, n.224)
Ma forse una qualche colpa dell’esito disastroso della serata l’ebbero i dirigenti scaligeri, come faceva notare, in una acuta recensione della serata, fin dal titolo: Un trittico forzoso, Emilia Zanetti, ancora dalle pagine de La Fiera Letteraria .
Concentrare tre primizie in una sola serata - come ha fatto la Scala per il secondo ed ultimo spettacolo di novità liriche offerte dal cartellone di quest’anno - è cosa alquanto inusuale quando non si tratti di festivals e di stagioni d’eccezione. Ma ci permetteremo di considerare ottimistica quella interpretazione che ha esaltato il procedimento come una sorta di giustizia economica a beneficio dei compositori contemporanei. Continuando questi a preferire l’atto unico è anche spiegabile che gli organizzatori finiscano col provvedere per proprio conto ad associarli in una rappresentazione di durata normale. Quanto al vantaggio che ne ricaverebbero i compositori stessi è più esatto negarlo, sia per la difficoltà che incontra la preparazione artistica, sia per la ricettività del pubblico messa a troppo dura prova dal contrasto di stili e di tendenze che, intrinseco alla situazione operistica di oggi, non può non sottolinearsi quando si mettano tre autori a contatto di gomito”.
Proseguendo: “Del clamoroso rifiuto che gli ha opposto il pubblico della Scala, si è sufficientemente letto sui quotidiani per tornare a riferirne. Pittoresco a vedersi e candidamente sproporzionato alla portata del fatto, esso ha inoltre molte probabilità di venire smentito in altre sedi meno ‘storiche’ o un po’ più spregiudicate ed ospitali alle voci d’oggi. Il che non significa che vogliamo dipingere Peragallo nelle spoglie dell’agnello innocente…”.
E, infatti, quando nel 1958 l'opera di Peragallo/Moravia fu ripresa a Roma (trasmessa anche alla radio), per iniziativa della Accademia Filarmonica, al Teatro Eliseo, in un ambiente molto più consono alle dimensioni 'cameristiche' dell'opera, valutata alla stregua di un antico 'intermezzo' - e non più davanti ad un pubblico come quello della Scala, considerato tradizionalista e provinciale - l'opera fu accolta bene, come del resto era già accaduto nelle numerose riprese che si ebbero, dopo la Scala, in Germania e America. A Roma l'opera fu diretta da Bruno Bartoletti, sul podio dell'Orchestra della RAI di Roma, ed ebbe la regia di Luigi Squarzina. Fra il pubblico: Alberto Moravia, Giorgio De Chirico, Lorin Maazel, Elsa Morante, Palma Bucarelli, Goffredo Petrassi, Guido Turchi, Piero d'Orazio, Toti Dal Monte, Massimo Mila, Elsa Respighi tra gli altri.
Da allora (e fino ad oggi) non si ricordano altre riprese.

Opere da romanzi di Moravia
Due i casi. Il primo è del 1956 e riguarda il romanzo d'esordio di Moravia, Gli indifferenti del 1929, dal quale ( un episodio di seduzione avviato nel cap.VI, che si sviluppa nei capitoli seguenti e termina nel X, ) Gino Negri trasse il libretto della sua opera 'in un atto e due personaggi': Vieni qui Carla, per soprano, baritono e dieci strumenti, data al Piccolo Teatro di Milano, giovedì 29 novembre 1956, davanti ad un pubblico di invitati. Sulla partitura, edita da Suvini Zerboni, si precisa che “ il libretto, scritto dallo stesso compositore, è stato tratto, col permesso dell'autore, dal romanzo di Alberto Moravia, Gli indifferenti (edizioni Mondadori)”.
Da una lettera di Moravia, senza data, conservata nel Fondo 'Gino Negri' della Biblioteca dell'Università di Milano - che ce l'ha gentilmente fornita - in risposta ad una, di molto anteriore, del compositore, apprendiamo della richiesta di un incontro che quasi certamente non avvenne:
Gentilissimo signor Negri,
Io sono in colpa verso di lei che mi scrisse tanto tanto tempo addietro. Mi voglia scusare ma per qualche motivo che non so, la sua lettera che avevo messo da parte per rispondervi andò a nascondersi sotto certe carte e soltanto oggi con costernazione io l'ho ritrovata. Dico costernazione perché mi sono accorto del tempo passato da quando la ricevetti. Io non so a che punto sia adesso la sua impresa di musicare Gli Indifferenti. Spero che il mio silenzio non l'abbia scoraggiato. In tutti i casi le scrivo per dirle che sono ben contento che lei l'abbia fatto e che mi interesserebbe sempre moltissimo incontrarla e parlare con lei della cosa. Insomma se lei viene a Roma, mi farà molto piacere telefonandomi, alla mattina, al numero 380.287. Con tanta cordialità, mi creda il suo, Alberto Moravia”.
Moravia, dunque, si scusa con il compositore, si dichiara felice che un'opera venga tratta dal suo romanzo e si dice disposto, nel caso di un suo viaggio a Roma, ad incontrarlo, pregandolo di avvertirlo, telefonandogli, ma 'alla mattina'.
Dalle cronache giornalistiche dell'epoca apprendiamo che all'opera (della durata di una cinquantina di minuti circa) Gino Negri vi avrebbe verosimilmente cominciato a lavorare all'indomani del debutto alla Scala della Gita in campagna di Mario Peragallo; e che era pronta da più di un anno (alcuni giornali scrissero 'due anni') prima del suo debutto al Piccolo, dove pare, a detta dei giornali, che l'autore l'abbia fatta rappresentare a sue spese, con il contributo della casa editrice e di qualche sostenitore. La lunga attesa è da addebitare certamente alla difficoltà per l'autore di 'piazzare' il suo lavoro, a causa dall'argomento 'scabroso' - una scena di seduzione, dall'inizio alla fine: ”un episodio del più brutale realismo amoroso: una lunga scena di seduzione con un finale che non è da riferire”, scrisse il critico de La notte, e altrettanto non mancarono di sottolineare tutti i giornali, in coro. Osiamo, perciò, ipotizzare che quella lettera 'tardiva' di risposta di Moravia a Gino Negri potrebbe anche non essere dello stesso anno del debutto, ad inviti, al quale Moravia non assistette ( in quel periodo era a Roma e stava rivedendo la versione definitiva de La ciociara, che uscì l'anno dopo), mentre folta fu la rappresentanza del mondo culturale e musicale dell'epoca (presenti: Franco Donatoni, Aldo Clementi, Giorgio Federico Ghedini, Efrem Casagrande, Alberto Soresina, Eugenio Montale, Beniamino Del Fabbro, Caty Berberian, Ornella Vanoni, Orio Vergani, Fiorenzo Carpi, Maderna Koepnich ecc...).
Il secondo, recentisimo, con l'opera Le due donne, tratta dal romanzo La ciociara (1957) - già fonte di ispirazione di un celebre film di Vittorio De Sica (1960) con Sofia Loren, che in America aveva mutato il titolo in Two Women - commissionata a Marco Tutino dall'Opera di San Francisco ed andata in scena nel giugno 2015, coprodotta con il Teatro Regio di Torino, dove approderà nella stagione 2016-17. Il libretto reca la firma dello stesso compositore e di Fabio Ceresa. Ma prima di arrivare alla stesura del libretto, Tutino si è rivolto ad uno sceneggiatore cinematografico, Luca Rossi, al quale ha chiesto una sceneggiatura vera e propria del romanzo, dalla quale gli è parso più agevole ricavare il libretto dell'opera. Del romanzo, oltre la storia, si sono presi i dialoghi, ma adattandoli a 'libretto' e poi si sono aggiunte alcune canzoni popolari romane, oltre a quella che De Sica aveva già introdotto nel suo film: Una strada nel bosco. Tutino ha dichiarato, a proposito:"Si può immaginare un'opera con un tenore (Dimitri Pittas) che ama un soprano (Anna Caterina Antonacci) senza che un baritono (Mark Delavan) cerchi di prevaricarlo?". Perciò, " un'opera basata su un libro, o anche su un film, diventerà necessariamente un'altra cosa.... Mi resi conto subito che il libro di Moravia, a dispetto delle sue tantissime qualità, non si prestava a essere trasformato in un intrigo operistico. La sua novella è troppo realistica, poca trama, manca di personaggi negativi. Per questa ragione prima di cominciare a lavorare sul libretto con Ceresa chiedemmo a Luca Rossi, sceneggiatore cinematografico di mestiere, di cominciare col libro di Moravia ma di scrivere una storia differente".

Canzoni per Laura Betti
Moravia scrisse anche canzoni, in due casi, gli unici conosciuti. Si trattò della risposta, in certo modo obbligata, ad una richiesta di Laura Betti che Moravia ed altri scrittori (tra i quali Flaiano, Arbasino, Mauri, Parise) e musicisti (Peragallo, Carpi, Gino Marinuzzi jr. de Banfield, Maselli, Negri) amici o conoscenti, non poterono rifiutare, anche perchè la proposta si sposava alla determinazione di alcuni intellettuali dell'epoca di rinnovare la canzone, alzandone i livelli, quantomeno dei testi. Laura Betti, con Filippo Crivelli, aveva voluto uno spettacolo di canzoni, dal titolo Giro a vuoto ( la cui prima edizione/versione è del 1960; ma ebbe diverse altre edizioni/versioni negli anni seguenti, con nuove aggiunte ), una delle quali, Mi butto! (in Alberto Moravia. Teatro. Vol.II. A cura di Aline Nari e Franco Vazzoler. Bompiani, Tascabili 2004) toccò scriverla a Moravia, e musicarla a Gino Marinuzzi jr.
Il testo, 'inzuppato' nella noia di vivere, cantava:

Mi butto!
Automobili, motoscafi
ville al mare e in montagna,
pranzi, cocktails, tè,
viaggi,villeggiature:
a soli vent'anni ho finito
dove gli altri hanno appena incominciato;
così ripeto a mio marito:
Mi annoio, mi butto, mi butto!”.
Ogni finestra mi tenta,
ogni davanzale mi attira:
la vita non è che noia, ma la noia non è vita.
Se solo mio marito
un giorno mi dicesse: “Buttati!”.
Ma lui naturalmente è buono
e non lo dice mai, così
mi annoio da morire e ripeto:
Mi butto, mi butto, mi butto!”.
Crede all'amore mio marito.
Che orrore l'amore, che orrore!
Così se mi parla d'amore, rispondo:
Mi butto!”.
Annoiarsi sarebbe anche il meno
se non mi annoiassi d'annoiarmi.
La noia da sola è già brutta,
ma la noia della noia è peggiore,
quindi è certo che un giorno mi butto!
Mi butto! Mi butto! Mi butto!
La seconda, Santa Seicento ( in Alberto Moravia. Teatro Vol.II. A cura di Aline Nari e Franco Vazzoler. Bompiani, Tascabili 2004) Moravia la scrisse per Potentissima signora, altro spettacolo di Laura Betti, del 1964, con la regia di Mario Missiroli, andato in scena al Teatro Duse di Bologna, il 7 dicembre 1964. Di questa seconda canzone non siamo venuti a capo del nome del musicista. Ed anche il volumetto pubblicato da Longanesi con i testi dello spettacolo, non ne fa menzione. Ecco il testo:

Santa Seicento
portabagagli
tergicristallo
carburatore
fari abbaglianti
prega per noi.

Dacci il bagno
a Ostia
la scampagnata
ai Castelli
lo struscio
a via Veneto.

Dacci i gelati
al Pincio
la sbornia
fuori porta
l'indigestione
a Monte Mario.

Dacci la donna
per la strada
col bacio
al volante
e l'amore
a cento all'ora.

Chi ti possiede
è rispettato
ammirato
privilegiato
anche se è solo
un impiegato.

Tu sei la vera
rivoluzione
sei il sole
dell'avvenire
dal socialismo
vaticinato.

Santa Seicento
quattro portiere
monocolore
superbenzina
cortemaggiore
decappottabile
prega per noi.



Libri di musica e dischi di Moravia
Se si rileggono i testi di contenuto musicale di Alberto Moravia, il primo datato 1934 (Il melodramma), l'ultimo 1984 (Caro Pianoforte, una brevissima riflessione sulla musica, pubblicata dalla rivista di musica Piano Time) ci si rende conto che tutti, ad eccezione dell'ultimo e di un secondo, degli anni giovanili, Varietà
(apparso la prima volta nel 1935 sulla Gazzetta del Popolo, ripreso nel 1942 su Documento) riguardano il melodramma o i suoi autori più noti (Rossini, Verdi, Puccini) ai quali, per circostanze diverse, lo scrittore dedica riflessioni originali.
Ma prima di esaminarli singolarmente, un particolare assai curioso ci viene di sottolineare: l'assenza, nella sua vasta biblioteca, di un qualche titolo che possa rimandare a letture frequenti, preparatorie, dello scrittore su detti autori. Manca perfino - ma forse in questo caso la regalò, o prestò dopo averla letta - la biografia di Puccini ( Puccini, Rizzoli 1976) scritta da Enzo Siciliano, che Moravia recensì con un lungo articolo, in terza pagina, sul Corriere della Sera, all'indomani della sua uscita. Non c'è un solo libro su Rossini, e neppure su Verdi ; mentre sono numerosi i titoli di questi autori presenti nella sua non vasta discoteca, nella quale, in generale, i titoli del melodramma sono prevalenti, anche con incisioni di pregio.
Tuttavia non mancano del tutto libri di argomento musicale, in numero ridotto; i quali inducono a pensare ad interessi momentanei e passeggeri dello scrittore per argomenti e personaggi sulla cresta dell'onda; oppure, in alcuni casi, a spiegarsi semplicemente come omaggi di case editrici o regali di amici scrittori. Nulla in ogni caso che attesti un'attenzione particolare per gli argomenti affrontati nei pur rari saggi di argomento musicale. E non è neppure ipotizzabile che fra i moltissimi libri letti da Moravia, quelli di argomento musicale - solo quelli? - siano volati via nei diversi cambi di domicilio romani, perché non ve ne furono: dal 1962 egli abitò, fino alla fine dei suoi giorni, 26 settembre 1990, a Lungotevere della Vittoria, n. 1, dove ora ha sede la Fondazione/Casa/Museo/Archivio che porta il suo nome.
Dai suoi non numerosi libri di argomento musicale - fra i quali, ad esempio: Puccini. La fine del bel canto di Giuseppe Tarozzi; Giuseppe Verdi, la vita e le opere di Frnacis Toye ( Longanesi 1950);Mahler di Ugo Duse, e, sempre su Mahler, di Gianfranco Zaccaro, Mahler. Studio per un'interpretazione; Ravel di Jankelevitch; Le Coq et l'Arlequin di Jean Cocteau; Per gli uccelli, colloqui con John Cage - sfogliandoli, nulla si riesce a dedurre leggendovi ed interpretandovi sottolineature ed appunti, del tutto assenti le une e gli altri, sebbene su alcuni si possano notare segni di 'utilizzazione', come ad esempio l'Introduzione alla sociologia della musica di T. W. Adorno ( Einaudi 1971).
A differenza dei libri, la collezione di dischi di Alberto Moravia, che conta alcune centinaia di titoli, è assai varia e rappresenta in qualche modo la summa di conoscenze musicali di un uomo di cultura, seppure non interessato specificamente alla musica.
Vi compaiono tutti i grandi autori, da quelli strumentali del Sei-Settecento italiano (fra le tante, è presente una registrazione Archiv de L'estro Armonico'di Vivaldi, con la dedica di Elsa Morante, regalo di compleanno per Moravia, con la data 28 novembre 1965) a Beethoven (presente con tutte le Sinfonie e con il Fidelio diretto da Fricsay, ma anche con i Concerti per pianoforte, Quartetti e Sonate per pianoforte); e poi Mozart ( Il flauto magico, Le nozze di Figaro, Il ratto dal serraglio, Don Giovanni, Concerti per pianoforte, Sinfonie, Serenate, Divertimenti); Bach ( Musica strumentale, Suite per violoncello; Passione secondo Matteo, Messa in si Minore, Brandeburghesi, Clavicembalo ben temperato); Schubert (Musica da camera), ed anche Mahler ( Sinfonie, dirette da Haitink; Das Lied von der Erde, direttore Klemperer; Kindertotenlieder, Karajan). Wagner è del tutto assente, ad eccezione di una selezione di Walkiria, Bruno Walter direttore; mentre numerose le presenze dei grandi operisti italiani, da Rossini ( Semiramide, Il barbiere di Siviglia, Ouvertures, sulla cui copertina compaiono le note illustrative scritte da Moravia, Petite messe solennelle) a Verdi ( La Traviata, Rigoletto, Il Trovatore, Ernani, Luisa Miller, Macbeth, Un ballo in maschera, Messa da requiem, diretta da Toscanini); Donizetti e Bellini con appena un titolo ciascuno (Don Pasquale e Norma) mentre di Puccini nessuno.
Ed allo stesso tempo colpisce il fatto che nella discoteca di Moravia trovassero posto opere moderne od antiche che non appartengono certo al grande repertorio, e che sono solitamente poco presenti se non del tutto assenti nella programmazione delle istituzioni musicali. Ad esempio: l'Orfeo e i Vespri (1610) di Monteverdi, Jephte di Carissimi, Boris Godounov di Musorgksy, Orfeo e Euridice di Gluck, Pelléas et Melisande di Debussy, Lulu e Wozzeck di Berg, Petruska, Sinfonia di salmi, Histoire du soldat, Il bacio della fata, Carriera del libertino di Strawinsky; di Richard Strauss Elektra; Pierrot lunaire di Schoenberg e perfino Il prigioniero di Luigi Dallapiccola, come anche Le marteau sans maitre di Boulez ed alcune opere sperimentali di Stockhausen.
Per l'opera barocca, invece, di Pergolesi figurano nella discoteca La serva padrona, Lo frate 'nnamorato, Stabat mater; di Cimarosa, Matrimonio segreto ecc...
Agli ultimi anni di vita di Moravia appartengono acquisti discografici, pochissimi in verità, che potrebbero attestare altri nuovi, sopraggiunti interessi musicali, forse indotti, o suggeriti dalla sua ultima compagna, Carmen Llera, che sposò nel 1986; o, forse nient'altro che semplici segni del suo passaggio da casa Moravia, come Concert di Keith Jarrett (1982), Miles Davis (1988) e le musiche di Peter Gabriel per il film di Scorsese, L'ultima tentazione di Gesù, 1989.
C'è infine un ultimo capitolo che merita di essere segnalato nella discoteca dello scrittore, ed è da mettere in diretta relazione con i suoi numerosi viaggi in terre lontane, e cioè quello della musica etnica, presente con registrazioni musicali di popolazioni africane od asiatiche.
Da quegli stessi viaggi proviene anche l'unico strumento musicale, piccolo di dimensioni, della famiglia degli 'idiofoni', uno strumento 'a pizzico' (dal nome Mbira o Sansa, in uso presso i Banti, ma anche presso altre popolazioni di quel continente) presente nella casa dello scrittore. Lo strumento é di origine africana (Africa sub-sahariana; della prima metà del sec. XX), accompagnava la danza e di esso si legge in Appunti di viaggio, pubblicati postumi nel 1999, pag.118).

Moravia scrittore di musica

Caro Pianoforte
Breve riflessione sulla musica, destinata al mensile Piano Time e pubblicata sul numero di gennaio del 1984 della ben nota rivista musicale ( anno II, n.10, gennaio 1984) nella rubrica Caro pianoforte - una lettera immaginaria inviata al pianoforte, cui la rivista era principalmente dedicata - alla quale contribuirono numerosi scrittori e poeti italiani. Il Caro pianoforte di Moravia fu fornito direttamente da Andrea Andermann, il quale dietro personale sollecitazione della direzione di Piano Time, l'aveva richiesto allo scrittore. Andermann lo consegnò alla redazione su foglio dattiloscritto con qualche correzione a mano.
Rileggendolo oggi, dopo trent'anni, viene da rilevare che il testo di Moravia per Caro pianoforte , benché forse il più breve fra tutti, ed uno dei pochissimi che non rispettasse le modalità 'epistolari' alle quali Caro pianoforte si ispirava, è forse fra i più acuti e personali apparsi nella rubrica.
Ecco il testo, che riproduciamo integralmente.
Il mio rapporto con la musica è duplice, di ascolto e di riflessione. Si dirà che questo avviene con tutte le arti. E invece no. Nella musica c'è un potere di suggestione e di identificazione, almeno per me, che esclude una contemporanea riflessione critica la quale viene invece dopo, a musica ascoltata.
Ne segue che per un visivo come me, ascoltare musica è in qualche modo come sospendere in parte e del tutto le facoltà razionali che invece restano sveglie e attive nella contemplazione della pittura.
Tutto questo spiega forse perchè esiste la melomania e non la pitturamania e la letteraturamania. E spiega pure un altro mio particolare fenomeno: che mi è sempre piuttosto difficile trovare il momento adatto per ascoltare musica. Adatto dal punto di vista esistenziale.
In quale momento della vita bisogna ascoltare Bach e in quale Beethoven, in quale Strawinsky e in quale Ravel, in quale Wagner e in quale Verdi?
Questo per dire che la musica è un'arte diversa da tutte le altre i cui confini con la nostra sensibilità non sono troppo visibili”.

Il melodramma
Di carattere e tono storico-saggistico è questo testo apparso sulla Gazzetta del
Popolo, il 9 novembre 1934 (ripreso nello stesso anno da La rassegna musicale), con il semplice titolo Il melodramma, e che va considerato il primo testo di contenuto musicale di un ancor giovane scrittore, ventisettenne, che all'epoca poteva godere già del successo de Gli indifferenti, suo romanzo d'esordio, uscito nel 1929. Questo testo, di contenuto musicale, non è stato mai più ripubblicato integralmente da allora, prima della recente ripresa sul bimestrale Music@, (Anno V, n.19, luglio/agosto 2010 ).
Il melodramma, scrive Moravia, è uno dei fiori 'più delicati e perituri' del Settecento: “delicato perché il melodramma, caso più unico che raro, è la combinazione equilibrata e feconda di più arti; perituro perché questa combinazione fu legata fin da principio ad una società e ad una maniera di intendere la vita affatto temporanee e contingenti”. E caso ancor più raro, il melodramma “più che un genere d'arte con leggi proprie ed evoluzione indipendente, come per esempio la commedia, fu un crocevia: le strade maestre del teatro, della musica, della poesia e del costume, venendo ciascuna da lontananze divergenti, si incrociarono un momento e produssero l'Opera”. E, di conseguenza, annota lo scrittore, “era fatale che dovessero separarsi di nuovo, dopo eccessi e infatuazioni che le avrebbero impoverite e ridotte a sentieri incerti e pericolosi”.
Il Settecento, per regalarci l'Opera, seppe trasformare, rinnovandolo, quello che gli era toccato in sorte del secolo precedente, e cioè, “una poesia artificiosa e aggraziata nella quale la parola tendeva ad evadere da ogni significato e a diventare musica; un teatro in cui il dramma allontanatosi dagli impegni della virtù e della violenza delle passioni non riusciva più che a mettere concetti logici in bocca a personaggi togati coturnati ed esanimi: una musica virtuosa fatta per divertire i banchetti e le corti”, “ un mondo sterile, tutta forma e niente sostanza, difficilmente rinnovabile” che il Settecento, al contrario, seppe rinnovare. Perché il Settecento, “contrariamente alla leggenda, non fu un secolo frivolo e decrepito, bensì robustissimo e giovanile”. Ed aggiunge una annotazione: “ Leopardi misurava la forza delle civiltà dalla capacità alle illusioni. E gli uomini del settecento... erano pieni di illusioni gentilissime e vaghissime”.
Gli ingredienti del melodramma si ritrovano tutti nel Candide di Voltaire.
Ma il melodramma ha molti nemici che lo “accusano di falsità e incoerenza. Tanto è vero che in tempi insinceri e veramente propizi a tutte le falsità, la parola melodramma è passata a significare un genere di situazione nella quale le espressioni tragiche e magniloquenti coprano, senza nasconderla, la più meschina delle realtà. Ma in origine il melodramma fu invece una cosa seria, almeno altrettanto seria che il cinema moderno”. Leggansi quindi altrimenti “ le situazioni inverosimili, gli stracci e i personaggi irreali che stavano lì a significare la potenza di un'immaginazione liberissima da ogni freno materiale e avida di armonie sovrumane e meravigliose...”. Fu proprio tale immaginazione a far fiorire i sentimenti più delicati che la musica e il canto “serissimi e verissimi” seppero esprimere. Perché anche quando i personaggi e gli ambienti erano falsi e inumani, come nella commedia, “gli accenti dell'orchestra e dei cantanti andavano dritti al cuore degli spettatori, rapivano i loro animi”. Non meravigli, perciò, esemplifica Moravia, che “ vicende assurde come quelle del Flauto magico, secchi intrighi come quelli del Matrimonio segreto riuscivano a commuovere la gente più raziocinante e artificiale che sia mai esistita al mondo”.
Per esistere, perciò, al melodramma occorreva “un mondo convenzionale e artificioso, non mitico e allegorico, di un'ispirazione sentimentale e giocosa, non morale e filosofica, di una concezione architettonica e sociale, non lirica e soggettiva”. E così riuscì a durare per il tutto il Settecento e fin quasi a tutto l'Ottocento. Ma “quando, crollata la società che l'aveva prodotto, si volle adeguarlo ai tempi nuovi e renderlo interprete di sentimenti che sotto l'apparenza di una maggiore complessità e vastità celavano una povertà, una rozzezza, un'intenzionalità effettive,
invece di rinnovarlo si ammazzò. Tale fu il risultato della riforma wagneriana”, conclude Moravia.
Nel 1964, richiesto dalla rivista Sipario ( Anno 1964, n. 224) che al melodramma dedicava un intero numero, di un breve parere sul ' Perchè l'opera oggi', Moravia tornò a parlarne ma semplicemente per sottolineare che l'opera lirica ha ancora ragioni per esistere come altre grandi produzioni teatrali del passato:
Per me l'opera lirica ha il valore che poteva avere cento o duecent'anni or sono. E' vero che sembra essere morta o quasi, dal momento che si scrivono e si rappresentano pochissime opere liriche nuove oggi; ma è anche vero che la particolare esperienza culturale e artistica dell'opera lirica è sempre quella e non è cambiata ed è insostituibile e inconfondibile. Con questo voglio dire che l'opera ha le sue ragioni d'esistenza eterne e sempreverdi come la tragedia greca o il dramma elisabettiano; e che chiunque riesca a 'vivere' a fondo queste ragioni, non può non trovarsi a suo agio nell'atmosfera dell'opera lirica”.




Festival di Spoleto
Fedele d'Amico in un resoconto sulla prima edizione del Festival dei due Mondi di Spoleto, fondato da Giancarlo Menotti, segnalava l'insolita presenza sul 'numero unico' di quella prima edizione, di uno scritto di Moravia.“In Italia - scriveva il noto critico in un memorabile acutissimo articolo del luglio1958 - nessun maggio e nessun autunno era mai riuscito a mobilitare tanti intellettuali, tante contesse, tanta stampa. L'articolo introduttivo al suo 'numero unico' è stato dettato da Alberto Moravia in persona”. Quello scritto, dimenticato e sfuggito ai solerti curatori della sua opera, riusciamo a trovarlo bussando a 'Casa Menotti' - l'istituzione/archivio voluta e sostenuta alla famiglia Monini, l'unica che conserva oggi la memoria del Festival di Menotti, ospitata nella casa del musicista che si affaccia su Piazza del Duomo; mentre l'associazione e la fondazione che, dopo l'uscita di scena dei Menotti, gestiscono il festival non hanno archivio.
L'articolo, cui si riferisce d'Amico, fu scritto da Moravia, su invito del musicista fondatore, e pubblicato con il titolo Le arti a Spoleto, come apertura del 'numero unico' - introvabile - della prima edizione del festival.
Pur non trattandosi di un testo di argomento musicale, ci è parso utile includerlo fra quelli musicali, dandone sommariamente notizia, perché si riferisce ad un festival, fra i più antichi d'Italia, che ha inciso sulla storia e sul costume musicali del nostro Paese.
Moravia esalta la provincia dove sono ancora possibili simili imprese e non per ragioni esclusivamente turistiche, ma perché, nonostante la industrializzazione, le piccole città sedi un tempo di splendide corti, offrono alle arti una cornice di grandissimo interesse. La provincia che nell'Ottocento fu un luogo dove “la vita della cultura giungeva di riflesso, debolmente e indirettamente, e sempre con grande ritardo”...verso il principio di questo secolo ritrova la “nostalgia delle corti, ossia del mecenatismo illuminato e aristocratico, risveglia le piccole città con i festival e le altre celebrazioni artistiche”, diventando improvvisamente “in più e più luoghi altrettanto moderna che la metropoli, anzi più moderna perché lontana dalle folle, più rarefatta socialmente e più selezionata artisticamente... La società della metropoli si dà convegno in provincia”.
Moravia esalta le attrazioni paesaggistiche, architettoniche, perfino climatiche che solitamente formano “l'incanto delle antiche città medievali, e che Spoleto può offrirlo in soprammercato agli spettacoli del festival”. E sottolinea che Menotti scegliendo Spoleto ha fatto conto su queste attrazioni “profondamente intime ed esclusivamente psicologiche dei luoghi lontani dalla vita moderna, conservati intatti dalla gelosia della storia, i quali chiedono al viaggiatore soltanto una disposizione d'animo contemplativa”.
Per concludere: “Spoleto certamente non si aspettava di diventare sede di un festival per opera di Giancarlo Menotti; lo stesso Menotti e coloro che accoglieranno il suo invito non si aspettavano fino a poco tempo fa di trovarsi a Spoleto per un festival. Da queste due situazioni impreviste e sorprendenti senza dubbio scaturirà il successo dell'impresa”.
A margine, una annotazione. Moravia invitato da Menotti a scrivere il saggio di apertura per il 'numero unico' del Festival di Spoleto, alla prima edizione, in seguito non fu mai invitato a rappresentarvi sue opere, nonostante che diverse ormai si erano viste sui palcoscenici italiani. Ad eccezione di un solo caso, e per iniziativa diretta di Enzo Siciliano, il quale, nel 1985, assieme ad un suo lavoro, ne presentò altri tre, rispettivamente di Sciascia, Ginzburg e Moravia ( che scrisse per l'occasione L'angelo dell'informazione), sotto il titolo ' Album teatrale italiano'.
(Le arti a Spoleto. Il testo integrale in Appendice)



Gioachino Rossini
Nel 1959 la RCA americana (Radio Corporation of America) pubblicò un LP (LM-2318) contenente la registrazione di alcune 'Ouvertures' delle opere di Rossini ( La Scala di Seta, Il signor Bruschino, Il barbiere di Siviglia, La gazza ladra e La cenerentola), dal titolo Rossini Overtures con la Chicago Symphony diretta da Fritz Reiner. Le note che accompagnavano la registrazione, riprodotte sulla custodia del disco recavano la firma di Alberto Moravia (Rossini by Alberto Moravia, in lingua inglese, nella traduzione di Anthony Winner), del quale, poi, in calce si forniva qualche cenno biografico.
Al Gabinetto Vieusseux di Firenze, di quelle note esiste la versione in lingua italiana, manoscritta, da ritenersi quella originale, che il Fondo Moravia ha fornito e, dietro autorizzazione, è stato pubblicato già su Music@ ( Anno VI, novembre/ dicembre 2011, n. 25. Bimestrale edito dal Conservatorio 'Casella' dell'Aquila), con il titolo, non originale, Rossini il pigro, giacché una 'singolare' pigrizia Moravia segnala nel ritmo di produzione del musicista.
Nel carattere di Gioacchino Rossini - esordisce Moravia - c'è una contraddizione significativa e, a ben guardare, soltanto apparente: il genio musicale italiano più estroso e brillante, più incalzante, più gaio e insomma più mobile ed attivo fu al tempo stesso un uomo di profonda ed incorreggibile pigrizia”. In occasione di questa incisione, prosegue Moravia, “verrebbe voglia di spiegare il suo genio in termini psicologici con questa famosa pigrizia, ma estendendone il significato fino a farne una dimensione addirittura dello spirito”. Che è ciò che poi fa. La pigrizia di Rossini, a differenza di altre presenti in letteratura (Moravia cita quella di Oblomov), non è simbolica, ma ”del tutto reale... quella stessa della natura materna profonda e misteriosa che non fa salti, ha bisogno di lunghi riposi e fuori dall'oscurità del letargo fa esplodere a intervalli le più luminose e brillanti primavere... A questa pigrizia tutta terrestre... si deve il miracolo preromantico della musica di Rossini, impetuosa, limpida, incalzante e allegra come i torrenti della primavera”. E gli errori e le opere non riuscite come si conciliano con la pigrizia del compositore che se fosse stato buon calcolatore avrebbe fatto solo cose 'necessarie e sicure', mentre egli, nel corso della sua carriera, fu “attivo, anzi attivissimo che non ha paura di sbagliare, e sbaglia assai spesso”? Nota Moravia: “ C'è insomma in Rossini la pigrizia generosa della natura stessa la quale attraverso successivi abbozzi tentativi e errori riesce ogni tanto ad esprimersi in qualche creatura perfetta e ineffabile. In questo Rossini assomiglia al suo contemporaneo Stendhal, negligente e trascurato ma sempre personale e affascinante anche nelle sue opere mancate e capace alla fine di scrivere un capolavoro in quaranta giorni”.
Ma allora di quale singolare pigrizia si tratta? Di “una specie di abbandono alle qualità naturali, una pigrizia tutta mentale e intellettuale, disposta ad aspettare senza impazienza il momento dell'ispirazione e intanto generosamente fertile in errori e prove mancate”. Il virtuosismo che in Rossini, spiega Moravia, è “surrogato dell'ispirazione che serve a mantenere alto il nome anche nei momenti di opacità”. A differenza di certi moderni nei quali il virtuosismo vuole addirittura sostituirla, l'ispirazione.
E' dalla sua pigrizia che scaturisce “l'umorismo rossiniano nel quale si esprime una concezione pigra dell'umanità, ossia indulgente, gaia, leggera, prova di ambizioni etiche o filosofiche ma supremamente vitale”. Per ribadire, nel contempo, che anche l'umorismo di Rossini “è l'umorismo stesso della natura, che è allegria della vita nel momento del suo massimo rigoglio”.
Le Ouvertures di Rossini sono piene di meravigliose promesse: poi il sipario si alza sulla nostra ammirazione e la nostra curiosità”, conclude Moravia.

Giuseppe Verdi
Nel 1963, quando ricorrevano i centocinquant'anni dalla nascita di Giuseppe Verdi (e di Richard Wagner, ndr), Moravia scrisse sul grande musicista italiano un breve saggio, intitolandolo La “volgarità” di Giuseppe Verdi. Di esso non conosciamo al momento la primitiva destinazione; sappiamo solo che venne pubblicato l'anno appresso, in una raccolta di saggi ( in L'uomo come fine e altri saggi, Bompiani 1964).
Moravia esordisce stigmatizzando la particolarità dell'ottocento italiano, secolo 'borghese', ma di una borghesia che, a differenza di quella di altri Stati (Francia, Inghilterra), era “paurosa, prudente, gretta, la quale strisciava davanti ai nobili e si prosternava ai piedi del clero”. E, del resto, anche il nostro Risorgimento, fu cosa meschina in Italia, specie se lo si confronta con gli altri paesi ed ancor più “con la grandiosità del passato italiano”. E giù, con l'accusa: “gli uomini del Risorgimento sono dei borghesi di provincia nei quali nazionalismo e liberismo mescolati producono una miscela a gradazione alcolica molto bassa. Con le loro ebbrezze romantiche essi preludono alle sbornie retoriche del fascismo, alla camomilla piccolo borghese democristiana”.
Tale situazione è esemplificata anche dall'architettura cittadina della provincia italiana, dove “accanto ai palazzi di pietra e di ferro medievali, alle gigantesche fabbriche del rinascimento, ai casoni del settecento, ecco, si annidano le casette in stile neoclassico dell'ottocento borghese, meschine, fredde, ristrette, progettate, si direbbe, dai maestri di disegno delle scuole elementari”. Tale panorama dà la precisa sensazione che l'Italia ha mutato i suoi “vizi grandiosi e le sue virtù poco convenzionali in un decoro nel quale tutto, dalla religione all'arte, dalla morale alla letteratura, è ridotto al livello di una società timorata e provinciale”. Ma non è raro il caso che quei grandi palazzi nobiliari siano oggi abitati da artigiani ed operai, che ne rivelano la decadenza. Eppure fra i popolani che abitano oggi quei palazzi decaduti e i nobili che li fecero costruire, c'è un “rapporto misterioso ma indubitabile”; che invece è del tutto assente laddove quei palazzi, restaurati, sono stati suddivisi in tanti piccoli appartamenti per borghesi in cerca di ambienti 'storici'.
E Giuseppe Verdi? In un simile panorama di provinciale pochezza, Verdi “rassomiglia un poco alla presenza di quei palazzi illustri ma decaduti nel centro delle città imborghesite della nostra provincia”. E per questo, in un secolo meschino e povero, la sua personalità “sanguigna, passionale, robusta, esplosiva, appare incredibile”, al punto che, paragonato ad altri uomini dell'Ottocento, egli risulti “non soltanto un'eccezione ma anche un anacronismo”.
Moravia, di cui si apprezza, qui come in altri casi, la precisa volontà che definiremmo didattica ed educativa, cita i casi di altre due eminenti personalità del medesimo secolo, di artisti non certo inferiori a Verdi: Manzoni e Leopardi, che “vengono dalla classe dirigente italiana, ambedue nobili di provincia”, mentre il Verdi è di origine contadina.
Manzoni, della società cui appartiene accetta ed esprime la meschinità; Leopardi la respinge, ma ambedue “portano il segno di ciò che è stato accettato o respinto”: di prudenza in Manzoni, di disperazione in Leopardi. Ambedue, infine, sono artisti 'moderni' ossia “perfettamente inseriti nella cultura della loro epoca... due artisti di gusto impeccabile, rigoroso, aristocratico”. Niente di tutto questo in Verdi “che, di origine, non è né nobile, né borghese ma contadino”. L'arte di Verdi “esuberante, esplosiva, passionale, non è mortificata da alcuna prudenza né sviata da alcuna rivolta; tutt'al più è sorretta da una eccezionale, animalesca astuzia artigiana”. E, proseguendo nel paragone con gli altri due grandi artisti suoi contemporanei, conclude: Verdi è “volgare”. “E detta 'volgarità' è l'aspetto più misterioso e più problematico” della sua personalità.
Nella sua intenzione di spiegare il concetto di 'volgarità' in Verdi, Moravia prende ad esempio due altri grandi artisti, nel caso francesi , come Stendhal e Balzac; il primo non è mai volgare, il secondo lo è. Ma questo ha una spiegazione: “ fra l'uno e l'altro c'è stato un rivolgimento sociale profondo e conseguentemente un cambiamento di stile”, che in Italia non ci fu.
La 'volgarità' di Verdi - prosegue Moravia - non somiglia neppure alla volgarità dei romantici, “per esempio di un Hugo” e ne spiega le ragioni, fornendo una serie ricchissima ed articolata di elementi.
Verdi si distingue anche dai romantici, perché “ non crede nella storia né come ricostruzione né come evasione...i suoi personaggi sono fuori della storia anche se sono in 'costume'. La concezione della storia di Verdi è immobile, statica, umanistica, plutarchina. E infatti i personaggi di Verdi ci interessano tutt'oggi, appunto perché sono prima di tutto uomini e poi uomini del medioevo e del rinascimento”.
Cosa è, dunque, questa 'volgarità' di Verdi, si chiede Moravia: ”è il palazzo illustre e antico andato in malora e abitato ormai da artigiani e operai... è la concezione umanistica del nostro rinascimento abbandonata e tradita dalla classe dirigente italiana dopo la controriforma, ma conservata dalle plebi e scaduta a folklore”. Così Moravia spiega la differenza con Manzoni e Leopardi e la somiglianza con “Garibaldi, anche lui uomo di altri tempi; e le analogie fra lui e Shakespeare”.
Il parallelo con Shakespeare, assai ricorrente, Moravia lo trova giusto, e lo spiega:
Ritroviamo in ambedue la stessa idea dell'uomo, la stessa prodigiosa conoscenza del cuore umano, lo stesso amore della vita, la stessa mirabile capacità di scindersi, scomparire dietro innumerevoli personaggi, di disarticolare la propria autobiografia in mille esistenze fino a renderla irriconoscibile”. Se questi sono i punti di contatto fra i due, non va taciuta anche qualche differenza, di rilievo. Shakespeare non è mai volgare, mentre Verdi resta sempre un plebeo; Shakespeare è un uomo del suo tempo, esattamente come Manzoni e Leopardi; e il “genere di bellezza che egli crea non ha niente di popolare, di rustico, di ingenuo: è una bellezza aristocratica e colta”.
Verdi è un plebeo nel quale “sopravvive, con modi folkloristici, la cultura di un'epoca defunta”, quella del rinascimento che egli riceve non dalla borghesia, ma dalle plebi della valle del Po, le quali ancora oggi conservano “nella loro vitalità sanguigna ed esuberante, un riflesso dell'antica Italia di prima della Controriforma: figuriamoci al tempo di Verdi”. E più precisamente: “ Verdi è parente stretto dei contadini che sapevano a memoria le ottave dell'Ariosto, dei gondolieri che recitavano le strofe del Tasso. Con lui si spegne la grande Italia e ciò che l'Italia ha dato di meglio e di più suo al mondo: l'umanesimo”. Verdi, perciò, è il “nostro Shakespeare folkloristico, plebeo, contadino, ossia 'volgare'”.
Riportando poi una affermazione attribuita a Stravinskij: avrei dato gran parte della mia opera pur di aver scritto la donna è mobile verdiana, Moravia riafferma il parallelo con Shakespeare: “per la collocazione fulminea e la forza evocativa, quelle note equivalgono al soliloquio famoso di Macbeth”. E simili cose è inutile cercarle presso i romantici dell'Ottocento che pur aspirando a tanto, non ci riuscirono mai.
Perché allora tanto interesse oggi nei riguardi di Verdi, 'uomo del Rinascimento', come lo definisce Moravia? Il suo ritorno oggi “è basato sopra un fondamentale malinteso: quello di ricercarne e rivalutarne la modernità. Verdi, conclude, non è moderno, affatto; era già un anacronismo nell'ottocento, lo è a maggior ragione oggi. La sua attualità è quella della poesia; ma parlare di un suo ritorno fa un curioso effetto; sarebbe, appunto, come parlare di un ritorno di Shakespeare”.

Giacomo Puccini
Nel 1976 Enzo Siciliano, amico fraterno di Moravia ed anche suo collaboratore nella rivista Nuovi argomenti dal 1966, pubblica presso Rizzoli una biografia di Giacomo Puccini. Alberto Moravia la recensisce sul 'Corriere della sera', in data 12 dicembre. Cortesia verso l'amico e l'editore, o reale interesse verso il musicista, magari spinto dalla singolare angolazione dalla quale Siciliano affrontava l'argomento? Semplice cortesia verso l'amico, siamo indotti a pensare, a voler giudicare dalla estrema scarsità di testi di argomento musicali di Moravia ( il precedente, su Giuseppe Verdi, risale a 13 anni prima). Tuttavia Moravia volge la recensione su un terreno, che ha radici ovviamente nella biografia di Siciliano, e che è per lui di particolare interesse - come suggerisce già il titolo del suo articolo Giacomo Puccini o la nevrosi borghese.
Il tema della borghesia, Moravia l'aveva già affrontato sia nel saggio dedicato al melodramma ( Il melodramma, 1934), sia in quello verdiano ('La “volgarità” di Giuseppe Verdi', 1963). Ora, cogliendo il suggerimento della biografia di Siciliano, torna sul tema della 'consapevolezza culturale degli artisti', per approfondirlo - al punto da dedicargli buona parte della recensione - premettendo che tiene fuori da detta analisi gli scrittori, i quali giocando con la parola che illustra un pensiero, non possono esserne estranei del tutto; ma con una attenzione particolare agli artisti italiani che, pur appartenenti ad una “cultura di grande tradizione”, per il fatto che essa è ormai “scontata e inoperante”, mostrano “consapevolezza sempre più scarsa”.
Annota Moravia che tale constatazione risulta evidente e perciò lamentiamo la 'mediocrità' di un artista, qual che sia il campo della sua attività dalla pittura alla musica, quando si cimenta con la parola, come nel caso di Puccini: “artista di straordinaria finezza e complessità, molto moderno anzi attuale, nel quale, accanto all'espressione della ferale e struggente insufficienza vitale che è propria del decandentismo europeo e che lo mette allo stesso livello di un Alban Berg, di un Debussy, di un Ravel, si accompagna, come dice Siciliano, l'appartenenza ad 'un ceto che ancora non sa quale sia il suo futuro: non più legato alle proprie origini contadine o mercantili: non è ancora borghesia e forse non lo sarà mai: è un grumo di esigenze e di velleità disposte a tutte le avventure dell'emigrazione come della politica'...un artista che sembrerebbe dotato come pochi per prendere coscienza di se stesso e del mondo in cui si trova a vivere. E invece non è così”.
E' il cuore del problema suscitato da Siciliano, condiviso in pieno da Moravia. Nel Puccini uomo tale consapevolezza manca del tutto. Ecco perché senza la musica egli appare “come un piccolo borghese toscano... malato della malattia del secolo ma non lo sa”, come buona parte dei piccolo borghesi italiani; e la esprime in “maniera 'sentimentale' cioè appunto con un massimo di comunicatività ed un minimo di consapevolezza culturale, come qualche cosa di privato e di meramente individuale” . Più precisamente, “non tanto nei contenuti che sono per lo più deplorevoli (Siciliano: “Puccini si è impantanato nel peggior romanzo per signorine”), quanto nella resa formale, perché Puccini, come non si stanca di dirci Siciliano, è un musicista molto moderno, cioè inquietante ed inquieto, capace di trasmutare tecnicamente in melodia le rimozioni, le inibizioni, i blocchi della nevrosi”.
Puccini vuole, come ogni artista, 'commuovere', come voleva commuovere Verdi e tutti gli artisti dell'Opera italiana; ma lui vi aggiunge la consapevolezza di essere
l'ultimo musicista ad esprimersi con l'Opera”.
Tutto ciò non spiega ancora perché il musicista abbia espresso nelle sue opere tante cose di cui l'uomo non era consapevole. Perché?
Tentiamo di spiegarlo con una ipotesi esterna all'arte - scrive Moravia, il quale prende le mosse da una affermazione di Siciliano. “Puccini, con tutta la su tecnica, è stato un oggetto e non un soggetto della storia”. Come del resto molti artisti suoi contemporanei, dai più grandi: Wagner e D'Annunzio, ai meno grandi: Boecklin e lo stesso Puccini. Cosa si intende per 'oggetto' e non 'soggetto' della storia? Spiega Moravia “vuol dire, secondo me, essere onirico, cioè vivere in un sogno determinato da inconsce pulsioni sociali e culturali. Gli artisti oggetti della storia sognano anche quando credono di tenere gli occhi bene aperti... costretti dalle circostanze a sognare ad occhi aperti delle cose che non stanno in piedi se prese alla lettera...”. E' stato sempre così? Artisti oggetti della storia sono esistiti in tutte le epoche, perfino nel medioevo? Sì, ma con la sostanziale differenza che i 'sogni' degli artisti medievali “stanno in piedi” benissimo. All'epoca di Puccini non sognano solo gli artisti, sognano anche i politici e le masse. Altrimenti come altro spiegare il fascismo (un sogno romano), il nazismo (un sogno ariano), il franchismo (un sogno controriformistico), sogni culturalmente deteriori?
Alla luce di questa forse parziale ma non arbitraria interpretazione, Puccini si rivela un borghese italiano proprio qualsiasi, cioè come ce n'erano tanti nella categoria dei cosiddetti 'professionisti'... vive la sua nevrosi dentro i limiti angusti di una professione liberale, e così approda, inevitabilmente, in maniera inconsapevole, anche se sinceramente vissuta e sofferta, alla disperazione borghese”. “ La cui originalità consiste soprattutto nell'essere incomunicabile”. Cos'altro vuol dire e può significare il “prosciugamento della vocalità” in Puccini, se non la incomunicabilità e afasia borghesi che esprimono oggi artisti come Antonioni e Bergman, nel cinema?
Moravia conclude rilevando libertà e felicità della biografia/saggio dell'amico che derivano a Siciliano dall'oggetto, lontano dalle sue più assidue preoccupazioni, ed anche dalla novità, per lo studioso, e cioè: “ l'esplorazione illuminante dell'oscuro rapporto nevrotico tra Puccini uomo e Puccini artista”.


Varietà
Nella produzione di Alberto Moravia, risalente agli anni trenta e quaranta, troviamo due scritti recanti il medesimo titolo Varietà, uno dei quali, uscito su Documento, era firmato Pseudo: nome di fantasia con cui si firmava per non incorrere nella censura del regime fascista, che gli aveva proibito di continuare a scrivere sui giornali (un secondo nome di fantasia che ricorre, sempre su Documento, era Tobia Merlo).
Il primo, pubblicato sul quotidiano Gazzetta del Popolo (19 aprile 1935); il secondo sul mensile Documento ( Anno II, n. 11-12, novembre/dicembre, 1942). I due scritti, sia pure identici nel titolo ed anche in numerosi passaggi, in altri altrettanto numerosi si allontanano, risultando due scritti distinti e differenti, e perciò quello apparso su Documento - cui facciamo riferimento e che abbiamo letto attentamente - non è semplice variante del precedente.
Tale saggio, mai pubblicato in seguito nelle varie raccolte di scritti dello scrittore edite da Bompiani, è stato ripubblicato in epoca recente, al cadere del centenario della nascita di Moravia, dal bimestrale Music@ ( Anno III, n. 8, maggio/giugno 2008) e, prima, dal bimestrale Nuova Storia contemporanea, come appendice di un lungo saggio, dal titolo Moravia e il ' Documento' mensile ( Anno XII, n.1 gennaio/febbraio, 2008).
In questo scritto che si riferisce ad un genere di spettacolo che nella musica ha uno degli elementi importanti, Moravia non parla mai della musica, ritenendola - nelle forme più comuni che lo spettacolo ha assunto nel tempo - di importanza secondaria. Si sofferma, invece, sull'attrazione principale di detto spettacolo: le danze, can can in cima, e le ballerine, le cosiddette girls. Le quali, nel mondo anglosassone dove ebbe origine, con il nome di 'music hall', quando ebbe attraversata la Manica e si chiamò 'café concert', trasformò le girls da “battaglione di ragazze bionde, dai visi indifferenti, dai petti sforniti e dalla magre gambe bianche” quali erano in principio, nella ”vittoria di una femminilità esperta ed adulta” che si esprimeva soprattutto nel can can.
Moravia, in questa sua precisa ricognizione sulle mutazioni intervenute nel genere di spettacolo, una volta smesse le sembianze nazionali, anglosassone o francese, per assumerne altre internazionali ed anche diverso nome, 'varietà', si sofferma a delinearne il costume ed anche le tipiche atmosfere che si respirano nei luoghi che lo ospitano. La musica, divenuta secondaria, in questo quadro e secondo questa prospettiva, risulta del tutto assente dalla sua analisi.


Che si conclude, notando che il favore di cui gode oggi il varietà è testimoniato anche dalla quantità di film sull'argomento, a cominciare da Varieté, film tedesco di Jannings. Mentre, invece, la sua stagione d'oro, per “nobiltà di 'contenuto artistico' risale ai primi decenni del secolo”, e lì si è conclusa.

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