lunedì 30 gennaio 2017

Alberto Moravia ( 1907-1990) e tutti gli altri scrittori del mensile ‘Documento’ ( 1941-1943) (IV)



           ALBERTO MORAVIA. IV   di Pietro Acquafredda


Al consueto rituale celebrativo degli anniversari non poteva sfuggire il recente centenario della nascita di Alberto Moravia
(Roma, 28 novembre 1907-1990). Convegni, mostre, articoli sui maggiori quotidiani e settimanali, riedizioni ‘critiche’ delle sue opere, anticipate negli ultimi anni da alcune raccolte di racconti sparsi, e l’immancabile inedito, tenuto in caldo fino all’atteso momento celebrativo. Fra i giornali, il ‘Corriere della Sera’ è quello che ha rivelato a più riprese, in questi ultimi mesi, un’anima ‘moraviana’. Ha dato, per primo, notizia della scoperta e dell’ imminente uscita del romanzo ‘I due amici’ per i tipi di Bompiani, anticipandone qualche brandello e, subito dopo, ha ospitato un intervento dello storico Luciano Canfora ( Corriere della Sera, 16 ottobre 2007), il quale invitava i lettori a ricercare le origini teoriche di quel romanzo riscoperto, in un libriccino di Moravia, stampato nel 1944 da ‘Libraio Documento Editore’, dal titolo ‘La speranza, ossia Cristianesimo e Comunismo’. Così Canfora: “ Il 20 maggio del 1944 una piccola tipografia romana, per conto del “Libraio Documento Editore” ( più esattamente:” Documento Libraio Editore” ndr) finiva di stampare uno straordinario saggio di Alberto Moravia, intitolato: La speranza, ossia Cristianesimo e Comunismo. L’opuscolo, di 52 pagine, era il numero 1 della nuova collezione di saggi, diretta dallo stesso Moravia, intitolata con felice scelta ‘ Il moto perpetuo’”.*1
A leggere Canfora, troppo frettoloso sull’editore romano che stampò il saggio di Moravia, la cui impresa editoriale egli definisce senza evidente cognizione di causa ‘una piccola tipografia romana’,verrebbe da supporre che lo scrittore si fosse rivolto ad un piccolo occasionale stampatore, desideroso soltanto di veder uscire quel suo testo. Ma le cose non andarono così, perché ‘Documento’ non era certo una semplice comune stamperia o tipografia, bensì una casa editrice e neppure tanto piccola; perché i rapporti di Moravia con quell’editore saranno di lunga durata e ben saldi anche dopo la Liberazione ( ‘Documento’ pubblicò nel 1944, anche ‘Agostino’ rifiutato - a causa della censura - da Bompiani); e perché il fondatore, proprietario e direttore di quella multiforme ed attivissima casa editrice, Federigo Valli, era persona ben nota a Moravia, oltre che suo amico, come dimostra il fatto che i rapporti tra i due continuarono ancora per anni, anche a guerra finita. E l’amicizia fra i due era estesa anche alle rispettive famiglie, come sembra raccontare una foto ricordo della primavera del 1947, in occasione della Prima Comunione dei figli dell’editore Valli, nella quale sono ritratti assieme ai coniugi Valli, anche Moravia e sua moglie Elsa Morante.
Il semplice elenco, che riproduciamo più avanti, degli scritti di Moravia usciti presso le edizioni ‘Documento’ ( val la pena ricordare sin d’ora che Federigo Valli, utilizzava anche altre sigle per le sue edizioni) lo dimostra in tutta evidenza.
Già alcuni anni fa , toccammo l’argomento ‘Documento’ mensile, nato all’interno dell’omonima casa editrice, per un nostro studio pubblicato da questa stessa rivista, riguardante Alberto Savinio’ critico musicale del mensile.*1bis.
Su ‘Documento’, mensile, constatammo che avevano trovato ospitalità – sarebbe il caso di dire ‘asilo’ ed ‘accoglienza’- le più belle penne e menti dell’ Italia dei primi anni Quaranta; salvo poi a voler rinnegare (o occultare) quei legami da parte di alcuni, a liberazione avvenuta. Cosa che fece, secondo le nostre conclusioni, Alberto Savinio, colpevolmente assecondato nel tempo da tutti i curatori dei suoi scritti musicali, per l’Editore Einaudi.
E già in quell’occasione, mentre su molti giornali si discuteva dei rapporti di Moravia con il Fascismo e della sua inibizione, mai del tutto osservata, a pubblicare scritti e racconti presso chicchessia, osservammo come sul mensile ‘Documento’, Moravia avesse continuato a pubblicare racconti e saggi, nel triennio 1941-1943, firmandosi con il proprio nome d’arte: Alberto Moravia – il suo nome di battesimo è, invece: Alberto Pincherle- con le semplici iniziali ( A.M.), ma anche con altri pseudonimi meno noti ma ugualmente sfruttati, come ‘Pseudo’ e ‘Tobia Merlo’. C’è addirittura un numero di quel mensile, dedicato interamente al ‘teatro’, in concomitanza della Biennale di Venezia ( Anno II N. XI-XII Novembre- Dicembre 1942), nel quale compaiono due suoi scritti, di tono saggistico ambedue, firmati rispettivamente: Alberto Moravia e ‘Pseudo’.
Per farsi un’idea dell’ assiduità di Moravia, nei fascicoli del mensile Documento ( in tutto venticinque, di cui tre numeri doppi, in concomitanza con il periodo estivo o di fine anno, ed uno addirittura triplo , nei primi mesi - febbraio/marzo/aprile - del 1943), con racconti e saggi, basterà notare che ben tredici, di varia dimensione, recano la sua firma, ponendolo al fianco di due altre personalità fra le più presenti nella rivista, Alberto Savinio in capo a tutti, e la scrittrice Gianna Manzini.
Di Savinio scoprimmo che molti dei suoi scritti erano andati perduti, nella foga di occultare il più possibile quella sua collaborazione ‘musicale’. Li raccogliemmo, e di alcuni riuscimmo a ricostruire genesi e forma originaria, ripubblicandoli come appendice di quel nostro precedente studio apparso su ‘Nuova Storia Contemporanea.
Quanto a Moravia, autore per il mensile ‘Documento’, le nostre speranze di scoprire più di un inedito come già per Savinio, sono andate via via riducendosi, man mano che, negli ultimi anni, Bompiani veniva dando alla luce raccolte di narrativa moraviana ‘minore’, cioè a dire di racconti brevi. Per fortuna, l’ultimo computo, ci ha riservato qualche piacevole sorpresa, allorchè abbiamo scoperto che tre ‘saggi’, apparsi su ‘Documento’, non sono stati ancora riediti dall’editore moraviano; autorizzandoci perciò - ottenuto l’assenso della ‘Associazione Fondo Alberto Moravia’ e degli eredi dello scrittore, che ringraziamo - ad allegarli al presente studio, come preziosa appendice celebrativa.
Di conseguenza, il nostro primo interesse nei confronti dell’ intensa attività di Moravia per l’editore ‘Documento’ – alla quale, finalmente, negli ultimi tempi, gli studiosi dello scrittore, hanno dato un certo rilievo*2 - si è via via convogliato nella volontà di raccogliere tutte le notizie possibili sulla ben nota rivista, oggi introvabile, per rilevarne alla fine identità e valore letterario, come anche sulla omonima casa editrice e sul suo proprietario ed animatore, Federigo Valli.
Ci è venuto in aiuto un documentatissimo saggio – l’unico esistente sulle Edizioni Documento e sull’omonima rivista – di Gioia Sebastiani, *2a, nel quale, però, l’autrice incorre in qualche inesattezza non trascurabile, come quando dice che l’ultimo numero di ‘Documento’ mensile uscì nel maggio del 1943, mentre uscì anche il numero di giugno 1943, che chiude la collezione della rivista, sul quale fra l’altro, apparve anche il racconto di Moravia ‘Il cavaliere’*3 .
Dunque il mensile ‘Documento,Periodico di attualità politica, letteraria, artistica’, edito da ‘Anonima Documento Editrice’ uscì a Roma dal gennaio 1941 al giugno 1943, diretto da Federigo Valli, che ne era anche l’editore.*4
Che mensile era ‘Documento’? Se si dovesse dar credito totale all’editoriale del primo numero - dal titolo ‘Pensiamo ai soldati’ – verrebbe da rispondere: foglio di propaganda; nonostante il formato ( 42X30), il tipo di carta ed il ricco corredo fotografico -il quale, tuttavia, alla guerra faceva riferimento in molti casi, in ragione del profilo professionale ed ideologico del suo editore e direttore, legato al regime. Se, invece, si voglia leggere quell’editoriale alla luce della trasformazione che nei tre anni di vita, ma a cominciare già dal primo, avrà ‘Documento’, il profilo e le finalità della rivista si rivelano sotto diversa prospettiva. Non possono non colpire l’eleganza del mensile, il suo costo abbastanza alto per l’epoca ( 10 lire al numero) ed il livello dei suoi collaboratori. *5 In particolare: il formato tabloid, la carta pesante, il colore, le foto a tutta pagina e di ottima qualità, le riproduzioni di opere grafiche e pittoriche e gli articolisti di gran nome inducono a pensare che quell’editoriale ed il corredo fotografico dei primi numeri, troppo smaccatamente ‘propagandistici’ per essere presi in seria considerazione, servissero da copertura e lasciapassare per far partire un’impresa editoriale di qualità che con la guerra ed il regime non aveva molto da spartire, in ragione dei contenuti, se non marginalmente ed occasionalmente. Ciò spiegherebbe la presenza di tanti ed illustri scrittori, intellettuali ed artisti su quel mensile. Come era riuscito il Valli, fascista dichiarato, a cooptarli ? Inoltre, cosa sperava di ottenere attraverso la loro presenza? E, infine, il regime medesimo cosa si attendeva da quel mensile che esso stesso finanziava attraverso il suo fidatissimo editore?
La Sebastiani, constatata l’evidente anomalia di ‘Documento’, ipotizza comunque che tutte quelle presenze , a suo dire ‘libere’, servivano a dare alla rivista una sorta di imprimatur culturale, ideologico; ma di quale imprimatur poteva necessitare ‘Documento’ che, dopo i primi numeri, rivelerà il suo vero volto: né foglio di propaganda, nè megafono del regime? Non sarà che l’impresa in cui Valli era riuscito fu quella di schierare tutta la ‘cavalleria’ fascista in difesa del regime, dando per scontato perciò che tutti gli scrittori di Documento avessero dichiarato, in un modo o nell’altro, la loro adesione – vogliamo dire: ‘simpatia’, oppure ‘non ostilità’ - al regime?
La studiosa arriva ad ipotizzare, a proposito del Valli, del quale elenca le benemerenze nei ranghi dell’editoria fascista, che ‘Documento’, a differenza di tutte le altre pubblicazioni cui avrebbe dato vita nel tempo, fosse frutto di una sua iniziativa personale, volendo assecondare i suoi interessi letterari ed editoriali, supponendo che i fondi per la pubblicazione giungessero all’editore Valli da quegli inserzionisti pubblicitari ‘di guerra’: industria degli armamenti e aeronautica in particolar modo, che Valli conosceva bene per la sua direzione di ‘Ala d’Italia’, organo quindicinale di informazione, diretta emanazione del Ministero dell’Aeronautica.
Tale supposizione dovrebbe farci ipotizzare che il regime assistesse pian piano alla evidente trasformazione di quel foglio - divenuto un covo di oppositori - senza muovere ciglio, soltanto perchè per essi garantiva un fedelissimo, spingendosi persino a sollecitarne l’imitazione, dato l’alto livello culturale.*6
Già nel primo anno di vita, 1941, ‘Documento’ fa una virata nella direzione che poi terrà per gli altri due anni di uscita ( gennaio 1942- giugno 1943), trasformandosi da rivista di attualità politica oltre che letteraria ed artistica, in una vera e propria rivista letteraria ed artistica, con un interesse particolare via via crescente, verso il mondo dello spettacolo*7. Alle foto di guerra e del regime si sostituirono pian piano foto di costume o di stelle del cinema e del teatro; le pubblicità del mondo dello spettacolo ( cinema e teatro più di tutti) presero il posto di quelle ‘belliche’; le presenze di artisti, in veste di specialissimi e preziosi illustratori delle pagine del mensile, si fecero ancora più intense, diventando una preziosa costante del mensile.*8
Ma “ ciò che più sorprende nei fascicoli di ‘Documento’ – non può far a meno di annotare la Sebastiani – è la consistente presenza della narrativa contemporanea: nel suo primo anno la rivista pubblica racconti di Corrado Alvaro, Luigi Bartolini, Arrigo Benedetti, Tommaso Landolfi, Gianna Manzini, Giuseppe Mesirca, Alberto Moravia, Alberto Savinio”.
Iniziative editoriali parallele, pur rade, l’editore di ‘Documento’, assume già dal primo anno di vita del periodico. Fatto non irrilevante, per smentire quanti pensano che all’attività di editore di libri, Valli si sia rivolto soltanto una volta terminata la sua esperienza di editore e direttore di periodici ; mentre soltanto la sua terza parallela attività, quella di gallerista, è posteriore alla cessazione di ‘Documento’ *9
Nel numero di agosto 1941 di ‘Documento’, si annuncia l’uscita del primo volume di una collana intitolata ‘Artisti d’oggi’, dedicato a Tamburi e scritto da Severini, molto curato editorialmente e graficamente, come farà sempre il Valli .*10
Nel secondo anno di pubblicazioni(1942), Documento, si è ormai trasformato in un mensile di arte , cultura , letteratura e spettacolo tout court. Le illustrazioni riguardanti la guerra ed il regime sono ormai poche ed ininfluenti. Documento raddoppia - con l’uscita quindicinale della versione tedesca e si allarga, aggiungendo nuove rubriche - come ‘Usi e costumi’, rubrica di moda e mondanità, affidata a Maria del Corso.
Per comprendere con chiarezza il nuovo percorso di Documento, nel 1942 appaiono due numeri ( il numero doppio di luglio –agosto, interamente dedicato al cinema, copertina di Usellini, in occasione della X Mostra di Arte cinematografica di Venezia; e il secondo numero doppio del 1942, novembre-dicembre, ancora un’illustrazione di Usellini in copertina, dedicato interamente al teatro.
Il 1943, Documento esce in quattro fascicoli, da gennaio a giugno incluso, uno dei quali ( febbraio-marzo-aprile ) triplo, nelle cui pagine, che superano ampiamente il centinaio,si leggono racconti e saggi di un numero considerevole di scrittori ed autori, ben venticinque e tutti di gran nome . Poi con la caduta del fascismo, Documento come molte altre riviste finanziate dal regime cessano le pubblicazioni. Ma non per questo, Valli cessa la sua attività di editore. Infatti anche dopo l’arrivo degli americani continuerà a pubblicare libri, e a fare mostre nella sua galleria di via Bissolati, aperta nel frattempo ( già nel dicembre del 1943) circondato dagli stessi artisti e scrittori che avevano lavorato con lui anche negli anni di Documento.
Ed ora torniamo alla domanda iniziale di questo breve studio? Il fatto che Valli, attraverso i suoi appoggi politici, godesse di finanziamenti del regime, e che ulteriori entrate riuscisse a procurarsi attraverso la pubblicità , può bastare a giustificare la presenza di tutti quegli scrittori ed artisti sul mensile Documento?*11
Secondo una vecchia, non più sostenibile opinione, tutti quegli scrittori lo facevano solo per fame, dato che Valli era tra i pochissimi che in quei tempi assai duri riusciva a dispensare le pur magre finanze, a sua disposizione ( Goffredo Petrassi ce lo confermò a voce una volta, avendo anch’egli frequentato, negli anni di Documento, il Valli, che pubblicò la prima sua biografia scritta da Lele D’Amico, nel 1942), senza però abiurare alle loro idee, ostili al regime. Valli avrebbe passato gli alimenti procuratigli dal regime ad un covo di oppositori, tutti cospiratori, semplicemente per tenerseli buoni, e magari anche per un secondo fine: instillare, cioè, nei medesimi oppositori, l’idea che il regime non era poi tanto crudele verso la cultura. E’ stato ormai dimostrato che molti di quegli scrittori ed artisti che dopo la Liberazione vollero presentarsi in società come homines novi, in realtà avevano aderito al fascismo, anche se non apertamente. Comunque non possono essere considerati uomini di sinistra ‘mimetizzati’ o ‘in sonno’, tutti quegli autori ed illustratori che,
appena qualche mese dopo la cessazione di Documento, lavorarono su una nuova rivista di opposto orientamento, leggendo l’elenco dei collaboratori di Documento non come lista di proscrizione bensì come cursus honorum. Mentre, invece, Federigo Valli e molti degli scrittori che avevano pubblicato sul suo mensile o presso le sue edizioni, cambiato il vento, avrebbero smesso la divisa fascista per vestire - impunemente - quella di uomini di sinistra. Solo che a Valli ed a pochissimi altri, quel cambio di casacca fu fatto pagare.




Infine. A proposito delle edizioni di Documento, la Sebastiani fa notare come certe date di pubblicazione di alcuni libri ( marzo-aprile 1944) siano volutamente state anteposte dall’editore per poter successivamente vantare, egli e gli autori pubblicati, meriti patriottici e culturali. Impossibili quelle date, nei mesi immediatamente precedenti la Liberazione, quando a tutt’altro si pensava che a cercare carta ed a stampar libri. Quei libri furono in realtà stampati verso la fine del 1944, conclude la Sebastiani. (Nei primi mesi del 1943, mesi non più facili di quelli del 1944, Valli riusciva a stampare e pubblicare regolarmente il suo Documento mensile, e per i mesi di febbraio/marzo/ aprile 1943, riuscì a far uscire un numero triplo, anche nelle pagine - oltre cento- del suo ricco mensile e di grande formato, nonostante la penuria di carta).
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*1. Così un avviso pubblicitario delle Edizioni Documento 1944. “Moto Perpetuo” . Collezione di saggi a cura di Alberto Moravia.’ Saranno raccolti in questa collezione saggi critici e informativi intesi ad illuminare in una maniera nuova tutti i maggiori e più vitali problemi che l’umanità dovrà al più presto risolvere per uscire dalla terribile crisi in cui si dibatte, e quelle testimonianze dell’intelligenza atte a scoprire e chiarire al lettore personaggi e opere di tutti i tempi’ . E’ uscito: n.1 Alberto Moravia: La Speranza ossia Cristianesimo e Comunismo. In corso di stampa: Guglielmo Peirce: L’impressionismo e Cezanne; Guido Piovene: Gli ideali della paura; Mario Praz: La filosofia dell’arredamento; Alberto Moravia: Diario politico; Giuseppe Ungaretti: Saggio su Leopardi; Bruno Zevi: Verso un’architettura organica. Volumi in 32°, stampati su carta uso a mano rilegati alla bodoniana, con impressioni a colori, L.50. Documento, Editore Libraio in Roma. Dei volumi sopra elencati , in corso di stampa, uscì soltanto il volume di Mario Praz, che ebbe molta fortuna, ristampato poi in lussuosa veste da Longanesi.
*1bis. Nuova Storia contemporanea. Anno VI n.6 Novembre-Dicembre 2002. “ Il ‘Documento’ rimosso di Alberto Savinio”. Pagg. 61-90 ).
*2.Alberto Moravia. Opere/2. Romanzi e Racconti 1941.1949. A cura di Simone Casini. Classici Bompiani 2002. Il curatore, nelle note ai testi, compie un approfondito esame dei rapporti di Moravia con l’editore ‘Documento’, partendo dal saggio della Sebastiani, citato nella nota successiva( *2a).
*2a. Gioia Sebastiani: “ Editori a Roma dopo la Liberazione: le Edizioni Documento” in “ Gli archivi degli editori. Studi e prospettive di ricerca” a cura di Granfranco Tortorelli, Patròn Editore, Bologna 1998. In tale saggio della Sebastiani, da tener sempre presente, anche dove non è esplicitamente citato nel corso del nostro studio, è elencata tutta l’attività editoriale di Valli , consistente complessivamente in una sessantina di volumi distribuiti in 11 collane.Tutto ciò in pochi anni, specialmente in quelli a cavallo della Liberazione, in cui la casa editrice di Valli è sottoposta ad un vero e proprio tour de force editoriale. Fra i volumi, fuori collana, “XXII Sonetti di Shakespeare scelti e tradotti da Giuseppe Ungaretti”, e ‘Gott mit Uns’ di Renato Guttuso( 24 tavole in nero e a colori con una nota introduttiva di Antonello Trombadori).
*3.‘Documento’, giugno 1943: una delle rarissime copie ancora in circolazione, è conservata presso la Biblioteca Comunale di Ferrara, che ringraziamo per la cortese collaborazione. Nella stessa svista della Sebastiani – che ferma le pubblicazioni di Documento a maggio del 1943, incorre anche Simone Casini nelle note ai testi ( vedi nota precedente, *2), salvo poi a correggersi parlando del racconto in questione per il quale annota con esattezza il numero di Documento sul quale era stato pubblicato.
*4. La redazione di ‘Documento’ era a Roma, prima in Via Principessa Clotilde 5, a due passi da Piazza del Popolo, e, successivamente in Via di San Valentino 21, ai Parioli, nel contempo, sede delle edizioni.
*5 . Il lungo elenco dei collaboratori di ‘Documento’, che riproduciamo in seguito accanto ai titoli dei relativi contributi, mette sul chi va là chiunque volesse comunque liquidare ‘Documento’ come periodico di propaganda ( nobilitato per così dire dalle illustri presenze che, di conseguenza, facevano il tifo per il regime, più o meno convinte).
*6. Riprendendolo da ‘Bibliografia fascista’ Febbraio 1942-XX , ‘Documento, ( aprile 1942, pag. 36), riproduce il seguente avviso. Doc-Agenzia Internazionale di Stampa- Via Principessa Clotilde 5 - Rappresentanze a Berlino, Budapest, Parigi.” Piacerebbe veder accolti e diffusi anche dai nostri grossi giornali i notiziari della nuova agenzia internazionale di stampa ‘DOC’, tutti dedicati a materie per solito trascurate dalle altre numerose grandi agenzie italiane e straniere. I notiziari DOC trattano delle lettere, delle arti, dell’editoria, della filatelia, delle scienze, del teatro. Sarà perciò che noi non li vediamo abbastanza ben accolti? Grave torto: grave errore. Sono ricchi di notizie che interessano il buon lettore più di tante cosiddette false e ridicole curiosità”. Dalla costola di Documento mensile, l’editore Documento, aveva fatto nascere anche un’agenzia Documento (DOC) con i medesimi interessi e sugli argomenti medesimi dell’omonimo mensile. I responsabili dunque di ‘Bibliografia Fascista’ non si sarebbero accorti della evoluzione nella direzione contraria al regime sia del mensile che della nuova agenzia che facevano capo al medesimo editore, un tempo ‘fedelissimo’, ed ora abiuro.
Alla Sebastiani, nel citato saggio, non sfugge la notizia: “ Un’altra iniziativa della casa editrice è la costituzione dell’Agenzia Internazionale di stampa DOC, con rappresentanza a Berlino, Budapest, Parigi e la pubblicazione di bollettini, in seguito addirittura quotidiani, in quattordici edizioni, in lingue diverse, con servizi fotografici periodici e in esclusiva. I notiziari dell’Agenzia, si legge nella rivista, trattano delle lettere e delle arti, dell’editoria, della filatelia, delle scienze e del teatro; tra le attività della DOC rientra ovviamente anche il bollettino ‘Cine Doc’”.
*7. Dai primi numeri ricorrono le seguenti rubriche fisse. Libri di Antonio Falqui (in un secondo tempo, la rubrica si intitolerà Lettere, assumendo in ambo i casi, assai spesso le dimensioni di un vero e proprio saggio); Musica di Alberto Savinio; Belle arti di Luigi Bartolini ( in un secondo momento, di Libero De Libero); Spettacoli di Arrigo Benedetti; Usi e costumi di Maria del Corso ( e non di Irene Brin, come erroneamente scrive Gioia Sebastiani nel suo saggio)
*8.Savinio, De Chirico,Guttuso, Capogrossi, Maccari, Bartolini,, De Pisis, Tamburi,Mastroianni, Ponti, Gentilini, Omiccioli, Sironi, Purificato, Afro, Fazzini, Mirko, Mazzacurati, Purificato, Zancanaro, Cantatore, Santomaso, Sassu, Migneco, Pirandello, Scialoia, Saetti, Viviani, Monachesi, Clerici, Scipion…per citare i più noti. Sul numero di Gennaio 1942, il mensile avverte:” I disegni e le tavole a colori pubblicati in Documento sono in vendita. Rivolgersi alla nostra Amministrazione, Via Principessa Clotilde 5, Roma”. Di particolare interesse i due saggi, di carattere teorico, a firma di due noti pittori ( Carrà e De Chirico), dai rispettivi titoli :”Prolegomeni pittorici” e “ Discorso sul meccanismo del pensiero” - saggio filosofico- usciti nel 1943. Successivamente De Chirico, girerà – per galanteria?- la paternità di questo saggio a sua moglie.
Una sola eccezione fra tante celebrità. Sul numero di Marzo 1942 di Documento, a pag. 32, vengono riprodotti due acquerelli di un dilettante speciale, Adolf Hitler, rispettivamente dal titolo:’Posto di medicazione a Fromelles’ e ‘Rifugio a Fournes’. Con la seguente dettagliata didascalia: “ Adolfo Hitler acquarellista. Non a tutti è noto che Adolfo Hitler, semplice soldato di collegamento della fanteria durante la guerra 1914-1918, pur partecipando attivamente al corso delle operazioni belliche e seguendone di persona le vicende sul fronte francese, non rinunziava tuttavia a fermare sulla carta i rapidi panorami che di quando in quando si presentavano alla sua attenzione di acquarellista. Si tratta di numerosi scorci e schizzi che riproducono con diligente fedeltà di linee i tranquilli angoli già attraversati dal cammino della guerra. ‘Documento’ pubblica qui due di queste singolari testimonianze di un silenzioso periodo della vita del Capo della Nuova Germania”.
*9. La galleria-libreria di Valli si trovava in Via Bissolati 12, di fronte al Palazzo dell’Ina. Si chiamava ‘La margherita’, l’insegna l’aveva disegnata Savinio, la dirigeva Gaspero Del Corso e vi lavorava anche Irene Brin. Subito dopo la liberazione, negli anni 1944-1945, ‘La margherita’ ospitò mostre di De Chirico ( luglio 1944); Severini ( settembre 1944); Francesco Guardi e Pietro Longhi,’Disegni e tempere di pittori veneziani del 700’ ( ottobre 1944); Tamburi ( novembre 1944); Vespignani ( gennaio 1945); Gentilini , presentato da Giorgio De Chirico( febbraio 1945); Savinio ( aprile 1945); De Chirico , ‘ duecento disegni, presentazione di Jean Cocteau ‘(luglio 1945).
*10. Sul numero di Ottobre –Novembre 1941 di Documento, si dà notizia dell’avvenuta uscita del volumetto dedicato a Tamburi, messo in vendita a Lire 12 “ con 32 riproduzioni in nero ed una tricromia, rilegato in mezza tela”. E si aggiunge: Sono in corso di stampa: Petrassi di Lele D’Amico ( il volumetto rappresenta la prima monografia dedicata all’insigne musicista ancor giovane); Cantatore di Sergio Solmi; Guttuso di Cesare Brandi; Paulucci di Albino Galvani; Fazzini di C.E. Oppo; Pirandello di Emilio Cecchi. Tra il 1941 e 1942 della collana vennero efffettivamente pubblicati, oltre i volumi dedicati a Tamburi e Petrassi, anche quelli di Sergio Solmi su Domenico Cantatore e di Albino Galvano su Enrico Paulucci
*11. Stando alle testimonianze di Maurizio Fagiolo dell’Arco, raccolte in occasione della mostra romana ‘ Sotto le stelle del 1944’. Storia, arte e cultura dalla Guerra alla Liberazione’ e pubblicate nel relativo catalogo di Zefiro Editore 1994 ( pagg. 63 e segg.), Federigo Valli che ‘in quei periodi di magra aveva dato a molti artisti una boccata d’ossigeno?. E più avanti, secondo le dichiarazioni di Gaspero del Corso, direttore assieme a Irene Brin della Galleria/Libreria ‘La margherita’ di Valli: “ I quadri si vendevano, anche durante il periodo dell’occupazione ( c’erano gli speculatori, i nuovi ricchi)”.


Moravia e il mensile ‘Documento’
Sui venticinque numeri complessivi della rivista, Moravia pubblicò 13 scritti, fra racconti e saggi, il primo sul primo numero (gennaio 1941), e l’ultimo sull’ultimo numero ( giugno 1943). Sui primi numeri, fino a febbraio 1941 incluso, si firmerà Alberto Moravia; da marzo 41 - per effetto del divieto del regime a pubblicare con il suo nome su riviste e giornali - e fino a maggio 43 ricorrerà, invece, sempre alle iniziali o a due pseudonimi ( ‘Tobia Merlo’, Pseudo) per firmare i soli racconti; nel caso , invece, di saggi, come quelli dedicati al Cinema ed al Teatro ( seconda metà del 1942), tornerà a firmare con il suo nome per intero. Una semplice curiosità, nell’ultimo numero del 1942, Moravia pubblica uno dei due saggi appena menzionati ‘Teatro e Cinema’ firmandolo con il proprio nome, ma nello stesso numero ne pubblica anche un secondo ‘Varietà’, e questo lo firma con lo pseudonimo ‘Pseudo’. Nel 1943, sull’ultimo numero di Documento (giugno), ricompare il suo nome per esteso, per il racconto ‘Il cavaliere’.
Di tutti gli scritti di Moravia per il mensile Documento, non sono stati di recente ripubblicati soltanto tre saggi, rispettivamente ‘America inquieta’, ‘In margine di una vecchia letteratura’, ‘Varietà, i quali tutti riproduciamo in appendice al seguente studio.
Altri due saggi, intitolati rispettivamente, ‘Letteratura e cinema’ e ‘Teatro e Cinema’ sono stati , invece, ripubblicati di recente nei Quaderni della Fondazione Moravia. Il primo , in Quaderni 1998( n.2, pagg.101-106); il secondo, in Quaderni 1997( n.1 pagg.139-142).
Infine, a proposito del terzo saggio che pubblichiamo in appendice, dal titolo ‘Varietà’, va ricordato che con analogo titolo Moravia aveva pubblicato già un più breve articolo nel 1935, sulla ‘Gazzetta del Popolo’ del 19 aprile. Ma l’esame di quel precedente articolo ci ha fatto concludere che seppure uguale sia il titolo e l’argomento, ed i due scritti abbiano passaggi comuni, si tratta di due scritti molto differenti; e che quello di ‘Documento’ non è una semplice variante del precedente.

Moravia su Documento mensile

Anno 1941
Numero Titolo Firma
-Gennaio. ‘Otello, ovvero l’equivoco’ Alberto Moravia
-Febbraio. ’L’intimità’ Alberto Moravia
-Marzo. ‘America inquieta’ A.M.
-Maggio. ‘La solitudine è più forte di me’ Pseudo
-Agosto. ‘Il canto del cuculo’ Pseudo
-Dicembre. ‘La rosa’ Tobia Merlo



Anno 1942
-Marzo. ‘Visita mattutina, ovvero il pozzo’ Tobia Merlo
-Maggio. ‘Fosco Aprile’ Tobia Merlo
-Luglio-Agosto. ‘Letteratura e cinema’ Alberto Moravia
-Novembre-Dicembre ‘Teatro e cinema’ Alberto Moravia
Varietà’ Pseudo

Anno 1943
-Feb.Mar.Apr. ‘In margine di una vecchia letteratura’ A.M.
-Giugno. ‘Il cavaliere’ Alberto Moravia





Moravia e le edizioni Documento
Moravia nei mesi immediatamente prima e dopo la Liberazione, lavorò quasi esclusivamente per l’editore Documento. Ne è convinto e lo scrive, orami senza più reticenze, anche Simone Casini, studioso moraviano e curatore delle edizioni dello scrittore per Bompiani:”Moravia sembra essere la personalità più attiva tra i collaboratori di Valli …Oltre a pubblicare suoi importanti testi narrativi, Moravia dirige la collezione saggistica ‘Il moto perpetuo’, che ospiterà il suo saggio ‘La Speranza ossia Cristianeismo e Comunismo’….Si può insomma affermare che una delle principali attività di Moravia nel primo periodo della Liberazione, se non la principale, fu il lavoro per Documento, più ancora che il lavoro di sceneggiatore e giornalista. E’ naturale perciò che ‘Agostino’ venisse pubblicato nelle edizioni dell’amico Valli.” *12

Moravia per Documento Edizioni


1. La cetonia. Racconto di Alberto Moravia. Acquaforte di Luigi Bartolini. Serie ‘La margherita’. Gennaio 1944. 55 esemplari numerati e firmati.( pagg. 14+2)

2. Agostino. Romanzo di Alberto Moravia. Due litografie di Renato Guttuso. Edizioni Documento. 500 copie. Febbraio 1944 ( pagg. 96+4) Moravia per Documento Edizioni

3. La speranza ossia cristianesimo e comunismo. Saggio di Alberto Moravia Collana di saggi‘Il moto perpetuo’, curata da Alberto Moravia. Documento Libraio Editore. Maggio 1944.
(Pagg. 52+4)

4. L’epidemia – Racconti di Alberto Moravia. Documento Libraio Editore 1944 ( pagg.206+ 2)

5. Due cortigiane e Serata di Don Giovanni di Alberto Moravia. Una tavola firmata di Mino Maccari L’Acquario Editore 1945 ( pagg. 170+2).
( N.B.Le edizioni Documento, negli anni di attività che vanno dal 1941 al 1946, pubblicano con alcune differenti sigle:
-Edizioni di Documento dell’Anonima Documento Editrice;
-Documento Libraio Editore;
-Edizioni A.D.E ( Anonima Documento Editrice);
-Nuovi Editori Riuniti ‘Documento’;
-Edizioni La Margherita;
- Edizioni L’Aquario,
-Edizioni D.O.C.


*12. Vedi nota precedente 2 op. cit. pag.1872






Tutti gli scrittori di Documento mensile


1941. ANNO PRIMO

N. 1 Gennaio 1941
Lavoro’ Racconto Corrado Alvaro
Otello ovvero L’Equivoco Racconto Alberto Moravia

N.2 Febbraio 1941
Angelo’ Racconto Alberto Savinio
L’intimità’ Racconto Alberto Savinio
L’imperialismo
nella letteratrura inglese’ Saggio Salvatore Rosati


N.3 Marzo 1941
La guerra è arrivata a “B”’ Racconto Giovanni Artieri
Vola -Vola’ Racconto Gianna Manzini
America inquieta’ Saggio A.M.
La coscienza imperiale
nella cultura tedesca Saggio Adriano Thilger

N.4 Aprile 1941
Il caso del tenente L’ Racconto Giovanni Artieri
Peste’ Racconto Raffaele Carrieri
Vittorio’(Cronaca brigantesca) Racconto Tommaso Landolfi
Lettere a Luisa’
Di ‘Piccolo mondo antico’ Saggio Piero Nardi
Don Oreste
Ovvero la vocazione eccessiva’ Racconto Ennio Di Michele
La coscienza imperiale
nella cultura giapponese’ Saggio Nicola Vitali
Attualita’ del
Romanticismo tedesco’ Saggio Leone Traverso

N.5 maggio 1941
Nascita di Hollywood’ Saggio Giacomo Valenti
E’ più forte di me
ovvero La solitudine’ Racconto Pseudo
Riflessioni sull’Italia’ Saggio Adriano Tilgher
Inquietudine’ Racconto Giuseppe Mesirca
Visita a un pittore ‘( Picasso) Racconto Guglielmo Pei
Il colosso di Rodi’ ( Cecil Rhodes) Racconto O.P.
Quattro gatti ‘ Racconto Gianna Manzini

N.6. Giugno 1941
Il ballo del prefetto’ Racconto Alberto Arduini
Sul deserto’( I- Commiato) Racconto Giovanni Artieri
Anna Stickler e la Ghilf’ Racconto Luigi Bartolini
Una difficile confessione’ Racconto Arrigo Benedetti
La caricatura’ Elzeviro Enrico Galluppi
La concubina fragrante’
(Gli amori di un imperatore) Racconto Yi – Ying
Galline e mutande in guerra’ Racconto Enrico Emanuelli

N.7 Luglio 1941
Le arti nell’avvenire d’Italia’ Editoriale Giò Ponti
La Siria tra Francia e Inghilterra’ Saggio Alessandro Lesiona
‘’Lo svaligiatore di banche’
(Inferno americano) Racconto Giuliano Salla
Casa “ La Vita”’ Racconto Alberto Savinio
Pomeriggio di scolaro’ Racconto Gianna Manzini
India antica in veste moderna’
( leggi sante della famiglia indiana) Saggio Yi-Ying

N.8 Agosto 1941
Morte fra due ombre’
(Lenin fra Trotzski e Stalin) Saggio Manlio Lupinacci
Una fucilazione’ Racconto Giovanni Artieri
Il canto del cuculo’ Racconto Pseudo
Lettere d’amore’ Saggio Enrico Galluppi
Confidenze di una spia’ Racconto Casildo Moves


N.9 Settembre 1941
Cronaca vera’ Saggio Manlio Lupinacci
Il padrone delle ferriere’ Saggio Marco Cesarini
Giorni in collegio’ Racconto Giuseppe Mesirca

NN.10/11 Ottobre-Novembre 1941
L’eterno problema russo’ Saggio Giulio Colamarino
Hugo von Hofmannsthal
e la poesia’ Saggio Leone Traverso
D’Annunzio e noi’ Saggio Enrico Falqui
Estate’ Racconto Gianna Manzini
Referendum sulla
bellezza femminile’ Saggio Anton Giulio Bragaglia

N.12 Dicembre 1941
Miliardi e pezzenti in guerra’ Saggio Enrico Emanuelli
Gente di Odessa’ Racconto Massimo David
Storia negli almanacchi’ Saggio Vittorio Gorresio
Anima o della Fantasia’ Saggio Enrico Galluppi
Italia e Tradizioni’ Saggio Rodolfo De Mattei



1942. ANNO SECONDO

N.1 Gennaio 1942
Generali e generali in guerra’ Saggio Enrico Emanuelli
Flora’ ( I) Romanzo breve Alberto Savinio
Napoleone a Sant’Elena’ (I) Diario Francesco Antonmarchi

N.2 Febbraio 1942
Donne e Fiori in guerra’ Saggio Enrico Emanuelli
La pittura dei Candidi’ Saggio P.M.Bardi
La mostruosa Lady’ Racconto Arturo Tofanelli
Ritratto di Ante Pavelic’ Saggio Curzio Malaparte
Flora’ ( II) Romanzo breve Alberto Savinio
Margherita’
(Le gioie-gioielli di Margherita) Racconto L. d. L.
Napoleone a Sant’Elena’(II) Diario Francesco Antonmarchi



N.3 Marzo 1942
Un viaggio in Paradiso
nel secolo VII’ Saggio Gabriele Pepe
Visita Mattutina
ovvero Il pozzo’ Racconto Tobia Merlo
Flora’ (III) Romanzo breve Alberto Savinio
Napoleone a Sant’Elena’(III) Diario Francesco Antonmarchi


N.4 Aprile 1942
Un precursore.
Sismondo de’Sismondi’ Saggio Giuseppe Santonastaso
Racconto d’inverno’ Racconto Enrico Galluppi
Studio di nudo’ Racconto Gianna Manzini
Napoleone a Sant’Elena’(IV) Diario Francesco Antonmarchi
Deledda minore’
(Lettere giovanili inedite) Saggio Riccardo Mariani

N.5 Maggio 1942
Sa de Miranda’
Novatore della lirica portoghese Saggio Salvatore Battaglia
Fosco Aprile’ Racconto Tobia Merlo
Giovanni Vancicalupi de Getis
Antenato di Goethe? Saggio F.A.
L’inverno scorso a Vichy’ Racconto Corrado Sofia
Piccola memoria del 1936’ Racconto Guglielmo Peirce
Napoleone a Sant’Elena’(V) Diario Francesco Antonmarchi


N.6 Giugno 1942
Spiriti europei
del Risorgimento italiano’ Saggio Giuseppe Santonastaso
Cronaca nera’ Racconto Vittorio Gorresio
Notte di Giugno’ Racconto Gianna Manzini
Tremila Carmen’
( Su Emma Calvè interrete di Carmen) Saggio Antonietta Drago
Maggio Fiorentino’
(Il maggio a Firenze) Racconto G.M.
Napoleone a Sant’Elena (VI) Diario Francesco Antonmarchi

NN.7/8 Luglio/Agosto 1942
Cinematografia fascista’ Saggio Alessandro Pavolini
Le architetture di un giorno’ Saggio P.M. Bardi
Letteratura e cinema’ Saggio Alberto Moravia
Didone abbandonata’
Soggetto di ballata cinematografica Saggio Alberto Savinio
Beltà italiane sullo schermo’ Saggio Eugenio Giovanetti
Costumi e costumisti’ Saggio Enrico Fulchignani
Cinema e documentario’ Saggio Giampiero Pucci
Appunti sull’ingenua’ Saggio Ercole Patti
Il bestiario di Fabrizio Clerici’ Saggio L.d.L.
Primavera fiorentina’
Appunti per un cortometraggio Saggio Gianna Manzini
Paesaggio italiano nel cinema’ Saggio Umberto De Franciscis
Cose dette e taciute’
La 23 Biennale Ven. ( arti figurative) Saggio Libero de Libero
Cinecittà’ Saggio Luigi Freddi

N.9 Settembre 1942
Ombre’ Racconto Gianna Manzini
Il Socialismo, l’Internazionale
e la guerra’ Saggio G. Perticone
La giornata di una cinese elegante’ Racconto Bianca Laureati
Il principe di Homburg’
di Enrico Kleist Saggio Leone Traverso
La chioma di berenice’ Racconto Riccardo Mariani
Napoleone a Sant’Elena(VII) Diario F. Antonmarchi

N. 10 Ottobre 1942
Isadora’ ( Duncan) Saggio Alberto Spaini
Gli odori’ Saggio Lorenzo Magalotti
‘’Marsilio da Padova’
Primo tecnico dello Stato moderno Saggio Giuseppe Santonastaso
Napoleone a Sant’Agata’( VIII) Diario F.Antonmarchi

NN.11/12 Novembre/Dicembre 1942
Il teatro ital. contemporaneo’ Saggio Mario Apollonio
Circo equestre’ Saggio Luigi Bartolini
Varietà’ Saggio Pseudo
Ricordi del teatro lirico’ Saggio Nivasio Dolcemare
Teatro e cinema’ Saggio Alberto Moravia
Vicende del radioteatro ital.’ Saggio Andrea Gritti
Teatro per tutti’ Saggio Mario Corsi
‘’Manierismo moderno
nella scenografia’ Saggio Libero De Libero
L’Organino’
Stroncatura fine secolo’ Saggio Niccolò Tommaseo
Le libertà teatrali’ Saggio Arrigo Benedetti
Spettacoli. Un colpo di pistola
(film) Saggio Arrigo Benedetti
Ribalta rivoluzionaria’ Saggio Manlio Lupinacci
Del Teatro Italiano futuro’ Saggio M. A.
Verità e fantasia del film storico’ Saggio Mario Missiroli


1943. ANNO TERZO

N.1 Gennaio 1943
I piaceri del malumore’ Racconto Vitaliano Brancati
La Pianessa’ Racconto Alberto Savinio
Spettacolo.Le amabili contraddizioni’ Saggio Arrigo Benedetti
La difesa dell’Italia’ Saggio Mario Missiroli
Gente nuova al Corso’ Racconto Corrado Sofia
Una lettera inedita di Carlo Dossi Saggio Beniamino Dal Fabbro
‘’William Faulkner
e il Naturalismo Saggio Salvatore Rosati


Nn.2/3/4 Febbraio/Marzo/Aprile 1943
Casanova in Inghilterra’ Memorie Giacomo Casanova
Primo amore.
Dal diario di una ragazza’ Racconto Elisa Mago *13
‘’Le voci’ ( Dolci , Voti) Saggio Alberto Savinio
Il processo Cagliostro’
Una documentazione inedita Saggio Mario Missiroli
Paesane che giocano a dama’
(pagine di un diario invernale 1923) Saggio Luigi Bartolini
Spettacoli. ‘Lacrime e Riso’ A.B.
Sottoterra come semi’ Saggio Enrico Emanuelli
La poltrona inquieta’ Racconto Ennio Flaiano
Tabacchiera’ Racconto G. Pei
Cora’ Racconto Vasco Pratolini
La mamma’ Racconto Romano Bilenchi
L’apodittica rosa’ Racconto Antonietta Drago
Vilfredo Pareto’ Saggio Giuseppe Santonastaso
Il suo nome’ Racconto Alberto Savinio
Un’intervista mancata’ Racconto Corrado Sofia
La noia’ Racconto Gino Vicentini
‘’Un terribile naufragio’ Racconto Casildo Moves
La miracolosa industria-
Codice americano’ Saggio Margaret Case Harrimann
Una donna all’inferno’ Racconto Arrigo Benedetti
In margine di una vecchia
Letteratura’ Saggio A.M.
La partenza di Giorgio’ Racconto Giuseppe Mesirca

Lo scaffale tarlato.
Capuana senza riserve’ Saggio Celestino
Prolegomeni pittorici’ Saggio Carlo Carrà
Tra campagna e fattoria’ Saggio Carlo Linati
Istanbul’ Saggio P.A.Quarantotti Gambini
Family Court’
Codice americano Saggio Leonard Q. Ross


N.5 Maggio 1943
Discorso sul meccanismo
del pensiero’ Saggio filosofico Giorgio de Chirico
Conclusioni su Isabella d’Este’ Saggio Maria Bellonci
Spettacoli ‘ Giacomo l’idealista’ Saggio Ar. Be.
Gente di Biella’ (1918.1922) Saggio Enrico Emanuelli
Quattro soldi’ Racconto Anna Banti
Maccari’ Saggio Libero De Libero
Voci’(Agonia, Apollinaire,
Nevrastenia, Etimologia,
Civiltà alimentare) Saggio Alberto Savinio
La nebbia nel film’ Saggio Gilberto Altichieri
L’arte fiamminga e la scultura
di Anna Cottrau Fokker’ Saggio Curzio Malaparte
Il cavaliere Leopoldo’ Racconto Irene Brin
Scaffale tarlato: La bocca del lupo’ Saggio Celestino

N.6 Giugno 1943
La politica di Machiavelli’ Saggio Giuseppe Santonastaso

Il tempio del “potente io sono”
ossia Ti salutiamo Arturo Racconto Leonard Q. Ross

Ringiovanire i classici’ Saggio Anton Giulio Bragaglia
Il cavaliere’ Racconto Alberto Moravia
La nuvola’ Racconto Anna Maria Ortese
Voci’ :Volontà, Pudore,
Imballaggio’ Saggio Alberto Savinio


*13.Sotto lo pseudonimo di Elisa Mago si celava in realtà la moglie di Federigo Valli, Maria, che ebbe anche un trascorso di scrittrice e poetessa. L’ultimo libro pubblicato dalle edizioni ‘Nuovi Editori Riuniti ‘Documento’, prima di cessare completamente l’attività nel 1946, era di Maria Valli, autrice sotto lo pseudonimo di Elisa Mago, dal titolo “ Primo amore”, finito di stampare nell’aprile del 1946, con la sovraccoperta illustrata da una linoleografia di Mino Maccari.




APPENDICE
Tre saggi di Alberto Moravia
usciti su Documento ( 1941-1943) e mai più ripubblicati

L’autore del presente studio e la direzione di Nuova Storia Contemporanea desiderano ringraziare le eredi dello scrittore nonchè il Fondo Moravia per l’autorizzazione a ripubblicare in questa sede i tre scrtitti di Alberto Moravia usciti su Documento e mai più riproposti in tempi recenti.


N.B. nel riprodurre questi scritti di Alberto Moravia si è conservata per nomi comuni e propri la grafia originale dello scrittore, così come appare nelle pagine di ‘Documento’ mensile
Documento Anno I n.3 marzo 1941

America inquieta
La moderna letteratura americana testimonia il malessere crescente che pervade il paese a misura che certi problemi volontariamente lasciati insoluti dalla società liberistica e mercantile si fanno acuti e impellenti.


L’attuale fortuna della letteratura americana ripropone nuovamente la questione se negli Stati Uniti esista una cultura o per lo meno una letteratura originale e indipendente da quella inglese. In altre parole s gli Stati Uniti abbiano in questo campo qualcosa di nuovo da dire.
Che la letteratura americana sia qualche cosa di diverso da quella inglese e in genere da quella europea, è un fatto ormai da tutti riconosciuto. Ma i giudizi discordano assai sulla natura e il valore di questa letteratura. Letteratura coloniale? Alessandrina? Periferica? Oppure originale e tale da rinnovare la letteratura del mondo come già fece la letteratura russa nell’ultimo secolo?
Io credo che l’imbarazzo dei critici derivi in sostanza dal fatto che all’ origine della letteratura americana non sono i primitivi come in quelle europee; e che essa manca del pari di quel ceppo umanistico da cui tutte le letterature europee traggono vigore e nobiltà. Insomma, la letteratura americana sarebbe, fin dalle origini, una letteratura decadente. Si immagini una letteratura francese che cominciasse con Rimbaud o con Baudelaire. Non esagero. La letteratura americana comincia con Poe, Melville, Hawthorne etc.etc.
Altro fatto che pone in imbarazzo i critici è la mancanza di uno sviluppo formale, stilistico, coerente. L’ispirazione degli scrittori americani non è mai determinato da tradizioni e preferenze culturali,bensì da fatti crudamente autobiografici. La patologia in Poe, il contrasto tra l’uomo e la natura in Melville, il rigore protestante in Hawthorne, la vita in seno alla natura in Thoreau etc.etc. la letteratura americana è refrattaria a qualsiasi anche indiretto umanismo. Il blando classicismo di Poe è tutto di maniera, un “pastiche”, allo stesso modo che il “ colonial style” è un “pastiche” del Palladio. La letteratura americana è essenzialmente romantica.
Ho detto che la letteratura americana è fin dall’inizio decadente. Aggiungerò che questo è il suo massimo titolo di nobiltà. Una letteratura decadente è la sola che convenga ad un paese nuovo eppur vecchio, composto di mille razze, sincretistico quanto alla cultura e alle religioni come l’America. Verranno mode neoclassiche, europeizzanti seguite con fedeltà dai paesi balcanici e levantini. L’America resterà decadente.
Il Padre della letteratura americana è Poe, in apparenza il più europeo, nella sostanza il più americano degli scrittori d’oltre oceano. C’è già in Poe, anche tralasciando i terrori e la patologia, quel senso crudo, macabro, meccanico, un po’ melodrammatico, incolto della realtà che poi ritroveremo in altri autori posteriori. Nè bisogna dimenticare che Poe è l’inventore di quel genere letterario tra tutti americano che è il racconto poliziesco. Americano è altresì è il gusto di Poe per le sistemazioni scientifiche; quell’idea della scienza come solo fatto positivo e in certa misura trascendente in un mondo guasto e estenuato. Poe infine è bene americano perché all’origine della sua opera non rinveniamo un fatto letterario ( Racine e Hugo e Poe stesso all’origine di Baudelaire) bensì le sue tare, la madre morta, la necrofilia etc.etc. Più o meno questa mancanza di radici umanistiche è ritrovabile in tutti gli autori americani. Donde il bric-a-brac in cui cadono ogni qualvolta cercano di darsi una patina letteraria aulica europea, da Poe su su fino al moderno Thornton Wilder.
L’America è il paese del “pastiche”e della contraffazione oppure del realismo più grezzo. Lo stile vi è raggiunto di rado.
La letteratura negli Stati Uniti si può, “grosso modo”, dividere in tre periodi. Uno iniziale che per comodità chiameremo coloniale sebbene già da tempo gli Stati Uniti non fossero più colonia; un secondo vittoriano; un terzo infine attuale. Del primo abbiamo già accennato; del secondo non mette conto, ai fini di questa nota, di parlare, nonostante le grandi eccezioni di Whitman, di Mark Twain, di Emerson, di James. Veniamo al terzo.
E’ dei paesi coloniali la vita grassamente mercantile, il concetto tutto materialistico dei valori, l’esasperazione della cosiddetta lotta per l’esistenza che è poi lotta per il denaro. Nelle colonie si va per arricchirsi abbandonando come un vano ingombro le civili tradizioni dei paesi di origine. Il pioniere è leggero nel suo bagaglio spirituale seppure pesante di avidità ambiziosa. Popi passata l’epoca dei pionieri rimane nel paese il loro materialismo. Questo materialismo americano, ultimata la conquista del West, costruite le grandi ferrovie e soprattutto sancita con la fine della guerra civile la supremazia del Nord industriale e liberista sul Sud agricolo e schiavista, andò crescendo fino a raggiungere il suo colmo nella cosiddetta “ prosperity” del dopoguerra. Fu quella l’epoca dell’industrialesimo e del compromesso vittoriano un po’ dappertutto; ma particolarmente in America che non aveva nulla da opporre in sede ideale o culturale a tanto travolgente ondata di ipocrisia e di filisteismo. Fu l’eoca in cui si concretò il mito dei miliardari, re senza corona di qualche prodotto industriale, l’epoca delle guerre cosiddette del dollaro, di Teodoro Roosevelt assertore dell’imperialismo americano. Scrittore tipico degli anni a cavallo tra ottocento e novecento fu non già l’anglicizzato Henry James bensì Edith Wharton rivelatrice alle folle americane dei misteri della vita elegante.
Ci voleva la crisi del 29, crisi prima di tutto finanziaria e economica per destare la letteratura americana dal suo letargo conformista. Come sempre l’avvio ad u n rinnovamento letterario era dato agli Stati Uniti da un fatto extraartistico.
La crisi oltre che economica anche morale, era stata annunziata da una letteratura sociale e realistica tutto sommato ancora provinciale. Uomini come Upton Sinclair, Sinclair Lewie, Dreisler e anche Dos Passos interessano a conti fatti soltanto l’America. Ritroviamo in loro la consueta brutalità e schiettezza americana ma sempre, dove più dove meno, anche una superficialità e convenzionalità che derivano in gran parte dal fatto che in questi scrittori, epigoni del naturalismo europeo, il rifiuto dei costumi americani era più estrinseco che profondo, e che essi partecipavano più che non sembrasse dei pregiudizi che mostravano di voler combattere. In altri paesi tale critica sembrerebbe esterna. Ma, occorre ripeterlo, in America il valore di un libro è spesso in diretta correlazione con la sincerità e violenza della sua ispirazione. Facit indignatio versum; mai come in America questo detto, difficilmente applicabile ad altre letterature, fu giusto e illuminante. Tuttavia bisogna che quegli scrittori sgombrarono la via a quelli che venivano dopo; e che senza di essi la nuova letteratura americana non sarebbe stata possibile.
La questione sociale era, dal punto di vista dell’arte, impraticabile. Bisognava scendere nel profondo dell’uomo, ritrovare la tradizione di Poe, di Hawthorne, di Melville, di Whitman. Il primo che intraprese questa discesa nell’umano fu Sherwood Anderson. Sensuale, lirico, sensibile oltremodo a tutto ciò che v’è nell’uomo di incosciente e di irrazionale. Anderson non impaccia di problemi di alcun genere e tende piuttosto a svelare quanto di decadente si muove sotto la rispettabile ed alacre apparenza della vita americana. “ Winesburg Ohio” si può definire l’epica di una piccola città in cui gli abitanti menano tutti una doppia vita, quella esteriore normale e quella interna anormale e frenetica. Per primo, ancora, Anderson parla dei negri, senza piagnistei e senza convenzioni, con una specie di nostalgica simpatia. “ Dark Laughter” propone per la prima volta quella tentazione negra, fatta di indolenza, di fantasia primitiva e di sensualità che poi diventerà così universale negli anni del dopoguerra. Ad Anderson si deve risalire per comprendere il largo posto che hanno le determinazioni patologiche nell’ultimo romanzo americano.
Andersobn fu un’avanguardia. Con Hemingway siamo già in pieno rinnovamento. Gertrude Stein nella sua “Autobiografia di Alice Toklas” si vanta di aver messo Hemingway sulla buona strada quanto allo stile. Non c’è dubbio che Hemingway si giovò molto delle esperienze cubistiche dell’immediato anteguerra. Lo stile di Hemingway, piatto, lineare, volutamente giornalistico, è un esempio notevole di semplicità sapientemente manipolata. Nei suoi romanzi e nelle sue novelle quasi sempre svolti in prima persona, Hemingway attraverso un ritmo narrativo molto cadenzato riesce a comunicarci il suo umore avventuroso, a comporre un ritratto assai riconoscibile di se stesso. Si sta con Hemingway sempre ad un pelo dalla cosa vista, dal diario, dall’autobiografia. Scarsa è in lui la fantasia; si direbbe che la sua prosa no n abbia che una sola dimensione. Comunque la sua i influenza è stata notevole. Scrittori come Cain, Caldwell, Saroyan di cui parleremo più sotto derivano da lui.
Di Faulkner qualcuno ha scritto che i suoi romanzi sono un connubio del fato greco con il romanzo poliziesco. Il giudizio non pare esatto, soprattutto a causa della scarsa organicità dei suoi libri; ma indubbiamente egli ha saputo ricreare qualcosa che molto assomiglia alla tragedia. Faulkner stabilisce fin da principio un clima violento, dei contrasti insanabili. Faulkner è u n moralista pessimista, per lui il male preesiste all’uomo e lo danna senza rimedio. Il male è nella razza, nella struttura sociale, nella situazione familiare, nel caso, nella corrotta volontà umana. Nei romanzi di Faulkner, con non inconsapevole sadismo, gli innocenti vengono puniti e i malvagi si salvano. Si pensa talvolta ad un Flaubert barbarico. In “ Sanctuary”, probabilmente il suo libro migliore, Faulkner ci ha dato la tipica tragedia americana. Si confronti questo libro con il romanzo di Dreiser che porta appunto il titolo “ Una tragedia americana” e si vedrà di quanto maggiore libertà e magistero artistico si giova il Faulkner nei confronti del suo predecessore.
Romanzi sulla malavita se ne sono scritti in parecchi in America; ma pochi hanno raggiunto come Faulkner il fondo dannato della fatalità, là dove vittime e carnefici sembrano accomunati da una stessa impotente e crudele pietà. In “ Light in august” Faulkner affronta la tragedia del sangue. Il negro danzante e spensierato di Anderson diventa con Faulkner tragico e maledetto. Contro di esso con la stessa implacabilità sta la fatalità del sangue come già la fatalità del vizio contro l’innocente Temple di “ Sanctuary”. Appare in questo libro quello che poi nei susseguenti sarà il massimo difetto di Faulkner: la sua incapacità costruttiva, il suo caotico romanticismo. I fatti si ingarbugliano, lo stile si fa ansimante e aggrovigliato, i particolari soffocano le linee principali. LO stile di Faulkner oscilla tra un realismo brutale e quasi documentario e un tono evocativo oltremodo torbido e denso. La sua prosa, piena di incisi e di digressioni, crea il personaggio piuttosto con approcci e annotazioni di “ atmosfera” che con tratti di carattere. Ma spesso si ha la sensazione che Faulkner annaspi incapace di dominare la ribelle e tenebrosa materia.
Ma Faulkner, pur con la sua confusione resta sempre scrittore di prima mano. Le sue tragedie sono genuine, fin troppo. Con Steinbeck e Cain siamo già nella imitazione. Steinbeck tira dapprima alla patologia in “ Man and Mices”, poi abbandonando questa ispirazione, con una versatilità superficiale, volge al racconto di colore, finalmente con il noto “Furore” entra nella polemica sociale ricalcando situazioni e metodi non troppo nuovi; talchè addirittura si è parlato per lui di Victor Hugo. Lo stile di Steinbeck è quello solito del realismo americano, efficace e diretto, ma ormai scaduto a meccanico procedimento. Più sottile e artista è Cain.
C’è nel Cain una grande abilità manipolatrice. Egli mette nei suoi romanzi un pizzico di un po’ di tutto: patologia e questione sociale, esotismo ed estetismo, sesso e arte. Il Cain esordì con “ The postman allway rings twice” in cui la situazione ricordava Faulkner e lo stile Hemingway. Nei libri seguenti Cain o ricalcò quel primo fortunato romanzo come nell’”Assicuratore” oppure compose divertenti quanto superficiali macchine narrative,come ” Serenade”. Il Cain non indietreggia neppure lui di fronte alle anormalità e alle perversioni; ma così queste sue preferenze come lo stile desunto, come è stato detto, da Hemingway, sanno di maniera.
Nella maniera ha dato molto presto anche Saroyan, mettendosi a rifare se stesso con stucchevoli e compiaciute stilizzazioni. Saroyan, armeno, porta nella letteratura americana il decorativismo lineare, l’affabulazione simbolica, il senso del meraviglioso che sono propri alla novellistica orientale. Certe storielle di facchini, di barbieri, di poveracci di Saroyan ricordano assai le minori novelle delle Mille e una Notte. IL suo più volte proclamato disprezzo per la letteratura e per ogni tradizione culturale si capisce se si tiene conto del fatto che Saroyan è un asiatico trapiantato di fresco nel gran bazar razziale degli Stati Uniti. Il Saroyan però con questo suo disdegno di ogni apporto culturale è stato presto costretto a rifare se stesso, come è stato detto, a non contare che sul proprio leggero bagaglio sentimentale.
Con Cadwell siamo daccapo nell’ America più genuina, quella del “ poor whites” dei poveri lavoranti bianchi del Sud. Il Cadwell ha in proprio un umorismo assai pittoresco, sanguigno, pagano si vorrebbe dire. La pesante materia in lui si alleggerisce fino ad un contrappunto avventuroso, quasi picaresco. Greve invece e torbido, con evidenti influssi dello Joyce di Ulysses, è Miller, descrittore nel “ Tropic of Cancer” della malavita americana a Parigi.
E’ stato detto dal Cecchi nella sua “America Amara” che questi scrittori e gli altri affini potrebbero con la loro violenza e il loro gusto per le passioni sfrenate rappresentare un nuovo romanticismo che attende un classicismo ordinatore. A un dipresso quello che fu il teatro elisabettiano prima che venisse Shakespeare a farne materia di grande arte. Soltanto ci pare che manchi all’America quel fondo umanistico che permise alla rovente esperienza elisabettiana di farsi con Shakespeare poesia. L’America è immobile per barbarie meccanica e moderna come tutti i paesi dell’Asia per antica sfiducia nell’uomo. Tutto vi si ripete, a sazietà, ma poco vi si sviluppa.
Toppo poca letteratura nuoce al romanzo americano almeno quanto nuoce a quello europeo troppa letteratura.
Semmai, fuori da ogni indagine estetica, sarebbe interessante notare fino a che punto la crisi che travaglia gli Stati Uniti si rispecchi nella letteratura di questi ultimi anni; e in quale misura la stessa crisi abbia esercitato una influenza sugli scrittori. Lawrence in un suo notevole saggio accennò al carattere molto contingente e, diremmo noi, “contenutistico” della letteratura americana. E benché ciò esorbiti dai limiti della critica strettamente intesa, non si può fare a meno di avvertire soprattutto nel romanzo degli Stati Uniti un carattere programmatico e per così dire augurale. In altre parole la letteratura americana attuale potrebbe con la sua violenza e la sua insistenza su certi argomenti preludere a rivolgimenti storici importanti. Allo stesso modo che la letteratura illuministica francese annunziò la rivoluzione dell’ottantanove e quella russa della seconda metà dell’ottocento e la rivoluzione bolscevica.
Osservata da questo punto di vista la letteratura americana è rivelatrice. Nel campo sociale e anche politico l’America è un paese in stato di natura. Poche leggi per un ristretto gruppo di persone, e tutto il resto vi cresce con esuberanza e indisciplina come la vegetazione di una jungla. La moderna letteratura americana testimonia il malessere crescente che pervade il paese a misura che certi problemi volontariamente lasciati insoluti dalla società liberistica e mercantile si fanno acuti e impellenti.
I problemi dell’America non sono i nostri problemi. L’Europa avrebbe gli stessi problemi degli Stati Uniti soltanto ove le barriere nazionale cadessero e i diversi popoli si confondessero. Le letterature europee rispecchiano lo sforzo di conservare l’originalità nazionale e nello stesso tempo adeguarla ad una cultura sopranazionale, europea, universale. Per l’America quest’esigenza non esiste. Essa cominciai dove gli europei finiscono. La sua letteratura testimonia semmai una fusione già avvenuta o in via di avvenire delle diverse razze che la compongono. In Europa non esistono egemonie culturali se non temporanee, secondo le fortune politiche e militari. In America fin da principio si stabilì l’egemonia culturale anglosassone. La questione per l’America non è di vedere quale cultura debba riportare la palma bensì di fare assorbire e digerire alla cultura anglosassone tutti gli elementi estranei che i milioni di emigranti hanno portato seco oltreoceano. In questo senso l’esperimento non interessa soltanto gli Stai Uniti ma il mondo intero. Dal suo successo si vedrà se la cultura anglosassone abbia capacità tali di assorbimento da passare dal piano provinciale e nazionale a quello sopranazionale ed universale.
Per orala letteratura americana attuale testimonia soltanto, come è stato già detto, il malessere di questa difficoltosa digestione. L’America dopo la crisi del 1929 si è scoperta ad un tratto non più inglese bensì cosmopolita. Certi fenomeni sociali che hanno trovato larga eco nella letteratura, quali il banditismo, la questione negra, il proibizionismo etc.etc. sono il risultato diretto di questa difettosa e disagiata trasformazione. Che ci dice per esempio il romanzo americano dei vari Faulkner,Cain, Steinbeck, Anderson, Dos Passos etc.etc. ? Che l’America sente i suoi latini, slavi, negri, ebrei, indiani come elementi ancora estranei e tuttavia già indispensabili alla sua futura e imminente formazione; che l’etica puritana, nel gran naufragio delle vecchie culture e religioni europee, è insufficiente a masse così sprovvedute e informi e che la carenza spirituale, il turbine vuoto che può da un momento all’altro provocare il ciclone, cresce ogni giorno; che la legislazione elaborata dai padri settecenteschi durerà soltanto quanto durerà l’”opportunity” ossia lo spirito individualistico e la possibilità di far rapidamente fortuna; che, infine, soltanto l’immobilità può mantenere l’instabile attuale equilibrio degli Stati Uniti; una guerra, n rivolgimento interno, qualsiasi atto insomma che coinvolga le masse americane potrà portare a radicali seppure forse incruenti cambiamenti.
L’America ha dei problemi da risolvere; e chi non ne ha? Soltanto i suoi problemi riguardano più da vicino che tanti altri l’avvenire del mondo. La forza degli Stati Uniti sta in quest’angoscia non nella sua industria o nel suo oro e nel numero dei suoi abitanti.
Di questa forza, di quell’angoscia, la presente letteratura americana è, con la sua tensione, uno dei testimoni più eloquenti.
A.M.


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Documento. Anno II nn.11-12 Novembre-Dicembre 1942
Varieta’
Varietà, parola internazionale, di stile liberty, scintillante e falsa come i diademi delle sue ballerine. Ma nel paese che l’ha creato il varietà si chiamò dapprima “music-hall”; e in quello che l’ha adottato per primo, “ cafè-concert”, o se si preferisce la brevità popolaresca “cafè-conc.”. Parole ambedue più profonde e antiche del novecentesco varietà; la prima rievocante il profano settecento inglese delle stampe di Hogarth; la seconda impennacchiata e borghese come tutto ciò che fu creato al tempo del secondo impero. Ho detto che il “ cafè-concert”è di importazione inglese; bisogna tuttavia aggiungere che una volta passata la Manica fece prestissimo a diventare francese anzi mediterraneo. Così che adesso il “ café-concert” fa subito pensare ai velenosi aperitivi all’assenzio o al nero tabacco caporal; e non possono non venire in mente le sale fumose dai tavolini gremiti di uomini sanguigni ed esigenti e le ballerine senza scrupoli e senza malinconie che si esibivano davanti a queste assemblee, donne dai petti ridondanti e dalla pelle bruna, animali robusti e accorti, educati alla dura scuola delle peregrinazioni in Levante e in Sud-America, teste di commercianti e di risparmiatrici. Tutto diverso era invece il “music-hall” anglo-sassone. Se al “ cafè-concert” trionfava una sensualità decisamente meridionale, questa era al tutto bandita dal “music-hall”. Il “music-hall”, in America come in Inghilterra, era un luogo di vizio che conservava quasi sempre le apparenze della rispettabilità. Nel “ cafè-concert” si beveva forte e si stava allegri; nel “ music-hall” il sentimentalismo nordico faceva degenerare l’ubriachezza in malinconia o furore. Del resto per apprezzare il valore di questa differenza basta pensare al balletto così tipicamente inglese delle girls. In Inghilterra esso fu e rimase un pezzo, un disciplinato battaglione di ragazze bionde, dai visi indifferenti, dai petti sforniti e dalle magre gambe bianche; girls, ossia fanciulle e tali erano spesso nel senso più corrente della parola. In Francia, invece, le girls dovettero parere insipide, ci furono molti adattamenti, alfine il genio nazionale trionfò nel cancan: amplissime gonne nere roteanti intorno una spuma di trine candide, gambe calzate di seta nera, legacci rossi , cosce nude. Altro che girls. Il cancan era la vittoria di una femminilità esperta e adulta. Forse per indicare che non sarebbero mai stati capaci di tanta arditezza, gli inglesi lo chiamarono il “ french cancan” ossia, non senza dispregio, il cancan francese.
Il “ music-hall” e il “cafè-concert” erano ancora l’espressione di gusti nazionali ben definiti, giacchè in quei tempi lontani il cosmopolitismo democratico del nostro secolo era ancora da venire e ancora esisteva un folclore urbano non meno genuino e originale di quello rurale. Ma con il novecento, tutto, come si dice, si “organizza”. Intervengono le agenzie internazionali, gli impresari, l’industria dello spettacolo. E tanto il “music-hall” come il “cafè-concert” pian piano si trasformano nello stereotipato varietà. Prima dell’attuale guerra , qualsiasi viaggiatore che volesse passare una serata al varietà, sapeva in anticipo quello che ci avrebbe trovato; e poco importava se la città in cui era capitato fosse Parigi o Berlino, Milano o Madrid, Nuova York o Buenos-Ayres. Sapeva quel viaggiatore che nella sala più o meno decorata, sul solito palcoscenico, avrebbe visto i soliti “numeri” ormai d’obbligo: la stella matura che tirandosi dietro qualche metro di strascico discende regalmente, tra due siepi di belle ragazze seminude, i gradini scintillanti di una scala artificiale; gli acrobati esotici, filippini o boemi, dagli strumenti sfavillanti di nichelio, dalle acrobazie impeccabili e noiose; i corpi di ballo troppo numerosi, “inflazionati” di venticinque, cinquanta, cento ragazze, tutte uniformemente sorridenti e sgambettanti, specie di millepiedi in delirio; i prestigiatori in frak, dalle facce verdastre e dalle mani fatate; i melensi ammaestratori di scimmie, ani, asinelli e di ogni altra bestia mite e paziente;la danzatrice “artistica”, greco-romana oppure negro-orientale, prodiga in gesti alati, in slanci eroici, in flessuosità e contorsioni allarmanti; e in breve tutte quelle “attrazioni” che il progresso delle comunicazioni permetteva agli impresari di diffondere in tutto il mondo senza troppo preoccuparsi di variarle e adattarle ai gusti locali. Un varietà senza alcuna varietà, mi si perdoni il bisticcio, anzi spaventosamente uniforme. E’ un po’ come avviene nel cinema, ma in misura molto maggiore, i nomi esotici annunziati con sfoggio tipografico sui cartelloni nascondevano quasi sempre gli stessi personaggi per nulla sorprendenti. Ci furono, è vero, dei tentativi per rinnovare il languente varietà; ma furono quasi tutti compiuti in una direzione, diciamo così, “contenutistica” , nel vicolo cieco del nudo e della pornografia. In America il “burlesque”, varietà locale molto ardito, non trovò di meglio che fare intervenire sul palcoscenico qualche bellissima ragazza la qual, davanti ad un pubblico congestionato di vecchi e di giovanetti, si toglieva con studiata lentezza un panno dopo l’altro fino all’ultima mutandine, in un silenzio tragico e rituale molto simile a quello che di solito accompagna il “ salto della morte” e altrettali esercizi. Alla fine la brava ragazza restava completamente nuda, l’orchestra si risvegliava con un rullo di tamburi e il pubblico entusiasmato batteva le mani reclamando un bis. Ci fu chi pensò di far passeggiare la ragazza, dopo che si era spogliata, sopra una pedana, tra le poltrone della platea. Oggi, credo che il “burlesque” sia proibito agli Stati Uniti.
Per conto nostro, abbiamo presto disertato le grandi sale, le costose poltrone di prima fila dei varietà internazionali; e se vogliamo ancora divertirci ad uno spettacolo di arte varia, scegliamo le sale popolari, i cinema della periferia, i teatrini provinciali. Si tratta, beninteso di un divertimento affatto speciale, agro e ironico, di specie moralistica; quale appunto si può provare davanti ad uno spettacolo come quello nel quale l’umanità grezza e involontaria degli attori supera di gran lunga in interesse e “ attrazione” i loro maldestri esercizi. La cantante diplomata a Milano dal petto sviluppatissimo, dalla larga faccia bianca e rossa sotto i riccioli neri, vestita sgargiantemente, la quale canta tenendo una mano sollevata e l’altra premuta sul cuore e finito di cantare fa un mezzo giro della ribalta mostrando al pubblico un crollante deretano tutto fasciato di seta ed ornato di nastri, certo non mi affascina con il suo canto; ma in compenso mi fa sorridere e mi piace come immagine. Le otto ragazze che compongono il corpo di ballo sono tutte disuguali, neppure a farlo apposta, alcune giovanissime e altre mature, quali bionde e quali brune, la prima altissima e magra, la terza piccola e rotonda, ma che importa? Ai loro corpi sgraziati non chiedo di eccitarmi con la procacità delle forme e di stupirmi con la regolarità meccanica dei movimenti, bensì di raccontarmi una storia. Il vecchio dicitore in frak, che cerca invano e senza molto impegno di dominare il pubblico ribelle con le sue antiche spiritosaggini e se ne esce inchinandosi sfrontatamente ai fischi come se fosse applausi, è ben lontano dal brillante personaggio che avrebbe dovuto rappresentare; ma incompreso la vecchiaia, la miseria, l’antiquato repertorio, lo scetticismo e gli acciacchi, gli hanno composto una parte che inconsapevolmente recita a meraviglia. E che dire dei due equilibristi spettrali e affamati, dai muscoli flosci e dai costumi miserabili che consultano con occhio inquieto il trapezio dal quale debbono slanciarsi; e quando, riuscito il salto, ricadono su due piedi con un inchino, non si sa se provano più sollievo loro o il pubblico? Seppure per motivi diversi, essi sono più emozionanti dei loro levigati colleghi delle platee europee e americane.
Del resto non sempre il piacere si alimenta soltanto di ironia e di squallore. Seppure di rado, capita talvolta di scoprire sui palcoscenici più impensati figure intere e poetiche, fuori da ogni compenso di curiosità di compassione. Come avvenne a me, in quella cittadina provinciale, durante un freddo inverno in un cinema affollato di ragazzi e di coscritti. Finito il film, il pianoforte attaccò uno sgangherato ballabile, quattro lampade si accesero alla ribalta, e su quel minuscolo palcoscenico comparve una ragazza. Era molto giovane con una gran zazzera crespa, gli occhi neri, le labbra rosse. Non aveva addosso in quell’aria gelida che uno stiracchiato reggipetto e una specie di fascia girata tra le gambe e intorno ai fianchi; ma il suo corpo bruno, adombrato per le gambe e le braccia di una rude peluria non pareva risentirsene e anzi infondeva calore a chi lo guardava. Cominciò a cantare con voce limpida e sonora, cercando nello stesso tempo di fare con le braccia dei gesti di accompagnamento e di accennare con le anche e le gambe dei passi di danza. A vederla muoversi con tanta ingenua goffaggine, veniva fatto di pensare che da poco tempo avesse barattato la sottana e la camicetta di ragazza povera con il costume provocante di canzonettista. E questa idea, non sapevo perché, dava alla sua nudità una credule aria di verginità violata e recente, come davvero fosse stata la prima volta quella sera che ella esponeva il corpo alla indiscrezione della platea. Cantò male; ossia senza curarsi degli effetti, come avrebbe cantato, operaia, in una fabbrica, o contadina, in un campo, con foga, abbandono e malinconia, commovendosi probabilmente ella stessa alle stupide parole della canzone; e finito di cantare scappò via in fretta, senza aspettare gli applausi del resto scarsi e contrastati. Poi per quella sera non comparve più sul palcoscenico.
Tali modeste sorprese noi chiediamo al varietà; poco più in fondo, di quanto ci aspettiamo alla comune umanità che incontriamo per le strade o nelle case. Ma venti o trent’anni fa, auspice certa moda decadente, al varietà saremmo andati per trarre ispirazione e collezionare immagini. Correvano allora gli anni migliori del varietà, non parlo dello spettacolo che è rimasto su per giù lo stesso, parlo del favore e della curiosità che riscuoteva il varietà tra gli artisti, pittori, scrittori, poeti. I primi, a dire il vero, erano stati gli impressionisti e post impressionisti francesi; la loro pittura aveva reso noti e popolari gli aspetti più fantomatici, insoliti, e patetici dell’arte varia. Quanti equilibristi, dopo Picasso; quante canzonettiste, dopo Toulouse Lautrec; quanti pagliacci, arlecchini, danzatrici, domatori, soliste, cantanti, etc. etc. L’impressionismo si trovava a suo agio in questo mondo in cui un gesto, un riflesso di lampada, uno svolazzamento di veste parevano fermare senza residui, il momento culminante di quella vita effimera; ad altri credo che il varietà si appellasse coi costumi, tanto più pittoreschi dei soliti costumi borghesi. Poi, sulle tracce della pittura, tutta una letteratura divagò sul varietà. Fu una letteratura di respiro breve, intenta anch’essa a fermare taluni aspetti “metafisici” oppure semplicemente trasognati del varietà. Ancora adesso certuni parlano del varietà come di un soggetto “bellissimo”. Riconoscete in loro gli ultimi epigoni di quella moda. Buon ultimo, il cinema, dopo Varieté, film tedesco con Emil Jannings, ci ha dato una quantità di film sull’argomento. Il varietà continuerà certo a esistere e a prosperare; ma la sua nobiltà di “contenuto” artistico , risale ai primi decenni del secolo.
Forniamo queste ragioni anche per giustificarci di non aver composto un “pezzo” sul varietà. Ma il nostro lirismo e, forse, anche quello del secolo si sono fortemente allontanati dal varietà come da tanti altri fallaci aspetti della vita moderna. In fondo il varietà è crepuscolare e decadente; non se ne può discorrere che in falsetto. Continueremo dunque ad andare al varietà; ma ne parleremo sempre meno.
PSEUDO


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Documento. Anno III. nn.2-3-4 febbraio-marzo-aprile 1943
IN MARGINE
di una vecchia letteratura

Il dopoguerra, anche nel campo delle lettere è restato nella memoria delle folle un colore fosco. Anzi per certi aspetti la letteratura più di ogni altra arte parve risentirsi del gigantesco turbamento della lunga guerra combattuta per quattro anni da tutto il mondo. Si sa che la letteratura a differenza delle arti figurative e della musica è suscettibile di riflettere direttamente e quasi, si vorrebbe dire, di fotografare le mode anche più passeggere e effimere. L’accusa di immoralità nella storia è sempre mossa alla letteratura. E c’è il perché.
Prima di tutto la letteratura è accessibile a tutti e però la reazione se ci sarà sarà sempre più universale che per le altre arti; e poi la letteratura è la sola arte che in certe determinate condizioni può sostituirsi alla vita. Pensiamo a fenomeni come il byronismo, il dannunzianesimo etc. etc.; letterari nelle origini appartengono tuttavia più al costume che all’arte. La pittura viene subito dopo nel grado di diffusione e di accessibilità; ma la antipatia per una determinata maniera di dipingere sarà sempre motivata in modo estrinseco, la maggior parte delle volte le critiche appuntandosi contro la scarsa o nessuna fedeltà del pittore al vero. Difficilmente, a meno di aperta pornografia,la folla avvertirà nella maniera di un pittore quelle caratteristiche che così spesso rimprovera alle lettere e che tuttavia sono presenti nella pittura come nelle arti. Tanto per far nomi lo stesso signore che esprimerà la sua sincera riprovazione per libri, poniamo, di Mario Marinai, uno degli esponenti in Italia della cattiva letteratura del dopoguerra, non esiterà a far fare il ritratto alla moglie da uno di quei deplorevoli pittori mondani che nel campo figurativo equivalgono appunto a Mariani. E’ dunque la letteratura la più esposta tra tutte le arti alle critiche pagando così a caro prezzola sua capacità di esercitare un maggior influsso diretto.
Venendo al dopoguerra, bisogna distinguervi due letterature: quella vera, dei buoni scrittori che risentì dell’epoca soltanto in maniera indiretta e comunque riscattò questo influsso facendone materia di poesia, e l’altra caduca che ebbe una straordinaria fioritura, tale da giustificare i timori che allora si concepirono sopra una supposta decadenza delle lettere e che piuttosto che un fatto letterario fu un vero e proprio fatto di costume. Alla prima accennerò soltanto di sfuggita alla fine di questa nota la quale vuole piuttosto essere dedicata alla seconda; come a quella che può servire a lumeggiare la psicologia e il gusto facile e diffuso dell’epoca.
La letteratura del dopoguerra non fu già l’inizio bensì la conclusione di un’epoca: quella romantica. Quello che distingue il dopoguerra dall’anteguerra nel capo delle lettere, non è già l’indirizzo e la materia bensì il grado di intensità. Le premesse dello sfrenato individualismo e della brutale sincerità che distingue molta produzione letteraria del dopoguerra era state già poste negli anni a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento così dal decadentismo come dal verismo. La guerra servì soltanto a far maturare in maniera mostruosa i frutti di quei due alberi. Gli uomini del dopoguerra erano gli stessi che avevano fatto la guerra, la loro reazione all’immane eccidio combattuto in nome di ideali che poi furono traditi, fu un desiderio di sincerità assoluta e nel tempo stesso una vaga aspirazione a nuovi ideali che tenessero il luogo di quelli antichi crollati.
Il desiderio di sincerità porta sempre alla brutalità, l’aspirazione agli ideali ad un’arte umanitaria e d propaganda. La letteratura del dopoguerra nelle sue forme più correnti e commerciali fu dunque ora brutale e ora umanitaria e spesso le due cose insieme. Le masse insomma chiedevano alla letteratura non arte bensì grossolana verità o direttive di vita. Purtroppo trovarono chi volle soddisfarle con grave nocumento loro e soprattutto dell’arte.
Alla prima categoria, quella dei libri “veri” letti per eccitamento e sollazzo appartengono moltissimi romanzi a fondo erotico che in quegli anni conobbero una straordinaria fortuna. Successi come quelli di Mariani, Pitigrilli, Da Verona in Italia, Marguerite ( La garconne), Barbusse ( L’Enfer) in Francia e tanti altri negli altri paesi d’Europa, attestano, con le loro elevatissime cifre di vendita, che l’erotismo e la scostumatezza non erano soltanto in quei libri, i quali altrimenti non avrebbero riportato un così grande successo, ma anche nelle folle dei compratori. Sul piano letterario quei libri cercavano di adornare la loro pornografia con gli ultimi miserabili orpelli del decadentismo oppure con le false sincerità di un rancido naturalismo.
Più importante e più significativa fu la voga di cui godettero gli scrittori a fondo umanitario, pensoso, o gli scrittori di chiaro valore letterario per la prima volta interpretati secondo quell’aspirazione a nuovi ideali di cui si è detto sopra. Di questi ultimi fu notevole soprattutto il caso di Dostoieschi ( sic) che pure aveva già conosciuto una diffusa notorietà verso la fine dell’Ottocento. Ma allora Dostoieschi era stato apprezzato per il suo valore letterario e insomma per la scoperta che in quel tempo veniva fatta dalle classi colte europee della letteratura russa. Nel dopoguerra, invece, in molte parti d’Europa, esso divenne una specie di santone, di portatore di una parola nuova. La moda di Dostoieschi nel dopoguerra attesta lo smarrimento dell’epoca nella stessa misura che quella dei pornografi. Perché Dostoieschi fu l’eroe di tanta gioventù di quegli anni? Perché dai suoi romanzi si poteva desumere tutta una maniera di vivere come a suo tempo era stato fatto con Byron e D’Annunzio. Questa voga più sentita in Europa che da noi, venne da qualcuno tacciata con la parola di “profondismo”. Effettivamente Dostoieschi aveva tutti gli elementi per piacere a quel tempo turbato. I suoi eroi romantici avevano una cupezza e un disordine che bene si intonava con l’aria apocalittica lasciata dalle distruzioni della guerra. L’Europa nel dopoguerra dubitava di se stessa e del proprio destino; e Dostoieschi, antieuropeo e reazionario mistico e asiatico, sofistico ed emotivo era ben fatto per piacere ad un continente che cercava fuori di sé le ragioni ideali.
Inoltre piaceva in Dostoieschi il torbido ed asiatico misticismo, veniva fatto di pensare che in quella torbida contaminazione di programma e di patologia, di dottrina e di psicologia fosse contenuto un” messaggio”. Piacque a molti e non dei minori di ritrovarsi in Dostoieschi, l’uomo della sofferenza, della pietà, e della trascendenti aurore boreali. Gide in un libro famoso tracciò un ritratto del russo in cui tutti furono d’accordo nel riconoscere soprattutto Gide stesso. In Germania si andò più in là; esaltati dalla lettura dei romanzi di Dostoieschi tre studenti, se ben ricordo, commisero un delitto dostoieschiano. In Italia il Rubè di Borghese era anche un romanzo dostoieschiano: e così in misura minore “ La Velia” di Cicognani. I russi del resto erano alla moda. I russi bianchi con il loro fastoso sfrenato disordine ancora memore degli splendori zaristi, quelli rossi perchè appunto apportatori di una “ parola nuova”. Tutto questo era vita e non letteratura. Quest’infatuazione coincise con l’avanzata russa su Varsavia, con l’apertura degli innumeri cabaret russi nelle capitali europee, con lo scoppiare delle varie rivoluzioni bolsceviche in tutto il mondo. Fu l’ultimo e più tragico esotismo dell’Europa, dopo quello settecentesco del balletto persiano e turco, dopo quello levantino del primo ottocento, dopo quello giapponese degli anni a cavallo tra ottocento e novecento. Ma anche in questo il dopoguerra non aveva fatto che portare fino alle ultime conseguenze certe premesse irrazionalistiche e mistiche dell’anteguerra.
Ma altri “ messaggi” non mancarono seppure sorretti da un’arte molto meno affascinante di quella del russo. Ognuno aveva da proporre una cura a questa Europa ammalata. E nessuno si accorgeva che le malattie sociali e politiche non si curano con i libri bensì con rimedi più appropriati ed efficaci. L’inglese Lawrence, disgustato dall’insopportabile artificiosità e sterilità della razionale e meccanica civiltà occidentale, credette di aver trovato il rimedio nel sesso. E a proposito bisogna osservare che fu un privilegio molto discutibile del dopoguerra, di aver fatto la scoperta appunto del sesso. Di esso si era sempre discorso nella letteratura europea ma sottovoce oppure nel segreto delle taverne e dei gabinetti galanti. Il dopoguerra scoprì il sesso come fatto primordiale e rinnovatore, quasi nuovo idolo da mettere al posto di quelli infranti. S’è detto del desiderio di sincerità che avevano riportato dalle trincee i combattenti; ma tale desiderio non sarebbe forse bastato che a creare una letteratura pornografica se in quel tempo la psicanalisi non avesse dimostrato come il sesso era all’origine di tutti gli atti umani anche i più ordinari e innocenti. La voga della psicanalisi, enorme soprattutto nei paesi nordici, parve per un momento creare addirittura una nuova specie di magia, con il suo rituale e i suoi misteri; e quasi tutti allora si scoprirono o per lo meno pararono di “complessi”. Comunque il sesso era uscito dalla zona vergognosa in cui era stato sin allora confinato. E la predicazione di Lawrence, seppure muovendosi in un piano tutto diverso da quello della psicanalisi e spesso in contrasto con essa, affondava le sue radici nello stesso irrazionalismo romantico che era alla base di tanti altri movimenti del dopoguerra.
Lawrence predicatore puritano rovesciato avrebbe voluto che la civiltà europea si salvasse attraverso il sesso, che tornasse alle religioni galliche arcaiche come per esempio quella dei messicani precolombiani e tutti gli altri primitivi. In Lawrence la polemica contro la civiltà meccanica e decadente attingeva le sue forze all’ultimo romanticismo. La sua teoria del sesso è parente stretta dell’”elan vital” bergsoniano, e del razzismo di Gabineau. Sangue, sesso, slancio vitale, tutti valori irrazionali, romantici da sostituire a quelli tradizionali europei che avevano fatto cattiva prova durante la grande guerra e contro i quali già da un secolo si accaniva la polemica romantica. Il guaio si era che Lawrence stesso era tutt’altro uomo da quello che avrebbe voluto essere; e che il suo teorizzare non era il prodotto di una forza attiva bensì la rivalsa di un profondo e morboso decadentismo. Il razionalismo e la decadenza che denunziava nella civiltà era lui il primo ad esserne affetto. Come è noto la lode degli istinti parte sempre dagli individui meno istintivi. Sono invece i veri istintivi che volentieri predicano la chiarezza della ragione.
Altra letteratura propagandistica e pratica che ebbe molta fortuna nel dopoguerra fu quella cosiddetta di guerra. Il libro che dette la stura fu il notissimo “ All’ovest niente di nuovo” del Remarque. Ed era stato preceduto dall’analogo successo della “ Grande parata” film di guerra che iniziò la serie delle rappresentazioni cinematografiche degli orrori della grande guerra. Così in “All’Ovest nulla ( sic) di nuovo” come in tutti gli altri che lo seguirono era chiaro il tentativo di rappresentare la guerra sopra uno sfondo umanitario. Letteratura di propaganda dunque e tanto più efficace in quanto pretendeva ad una documentaria obbiettività. Il valore artistico di questa letteratura era assai scarso; nulla essa portava di nuovo muovendosi nell’ambito del vecchio naturalismo, ma essa faceva parte di tutta una voga umanitaria e sociale che in quel tempo si battezzò con il nome lusinghiero di letteratura europeizzante. Soprattutto in Germania ci fu un diluvio di tali libri. Molti pensarono che la moda di tali romanzi testimoniasse un profondo rivolgimento nello spirito della folla, da guerresca diventata pacifista. Attestava invece niente altro che l’emotività dei lettori ancora freschi delle prove della grande guerra e semmai piuttosto che un disgusto della guerra, un disgusto dl modo con il quale era stata condotta la guerra mondiale in particolare.
Nel dopoguerra altresì le formule letterarie che nell’anteguerra erano state limitate a piccole avanguardie, si diffusero e diventarono democratiche. Attraverso il teatro e la stampa movimenti aristocratici quali il cubismo, l’espressionismo, il dadaismo e ultimo il surrealismo conobbero una larga seppure equivoca fortuna. Gli “ismi” letterari ed artistici del dopoguerra così numerosi e così popolari attestano da un lato la larga diffusione del gusto e della letteratura e dall’altro il rapido esaurirsi di quella letteratura di eccezione che era stata soprattutto la specialità della Francia nei primi anni del secolo. E’ una caratteristica dello spirito democratico di mettere l’eccezione alla portata di tutti. In quegli anni soprattutto a Berlino e a Parigi ci fu una vera fiera di “ rivoluzioni” letterarie ed estetiche. Ma gli artisti veri che nel passato le avevano provocate tendevano sempre più ad appartarsi; e sempre più i “movimenti” erano opera di meteci e di modaioli superficiali. Così che quando con le rivoluzioni e le guerre ultime si verificò il crollo di tutta quella civiltà si ebbe la sensazione che nulla di veramente valoroso fosse stato soffocato in germe. Anche nel campo dell’avanguardia era l’individualismo ottocentesco che dava le ultime tratte; e non una nuova arte che si affacciava al mondo.
Bisogna mettere scrittori quali Pirandello tra i grandi successi non letterari o per lo meno non soltanto letterari del dopoguerra. E’ chiaro ormai che il successo del teatro pirandelliano, la voga che conobbe l’aggettivo “pirandelliano” in quegli anni si devono soprattutto alla crisi del concetto individuale, lontana nelle sue origini ottocentesche ma nel dopoguerra, a causa appunto della guerra, giunta al suo acme. Il mondo intero ravvisò in Pirandello il descrittore di un’umanità scentrata, dubbiosa, problematica, sfiduciata sulle sorti umane e sulla ragione umana. Si ripeteva per Pirandello lo stesso fenomeno che per Dostoieschi apprezzato e ammirato per tutt’altre ragioni da quelle dell’arte. Pirandello fu l’ultimo e più vasto successo di “costume” nel campo della buona letteratura.
Bisognerebbe ora parlare della letteratura vera, di quella che fiorì nel dopoguerra senza giustificazioni popolari e fortune non letterarie. Bisognerebbe parlare di Proust, di Valéry, di Gide e anti altri in Francia, di Eliot della Wolf di Huxley di Joyce in Inghilterra, della nuova poesia e dei cosiddetti frammentisti in Italia. E di tanti ancora che daranno in futuro senza dubbio il suo più vero e più durevole color al dopoguerra. Ma questa nota non ha voluto che additare certi riflessi della vita del dopoguerra nella letteratura e non il valore degli scrittori genuini che fiorirono in quegli anni. D’altra parte sebbene tutti questi scrittori, quali più quali meno, partecipino del colore del tempo in cui hanno pubblicato le loro opere, non sarebbe tuttavia possibile senza arbitrio raggrupparli sotto un comune denominativo; a ciascuno spetterebbe un esame attento il quale non potrebbe essere che estetico. Ci militeremo per questo ad osservare che quando questi autori conobbero una voga non letteraria, la conobbero per le medesime ragioni di quelli che abbiamo già enumerati. La polemica in Huxley, l’umanitarismo in Mauriac, la questione sessuale in Gide e Proust, e così via determinarono in vari momenti la popolarità extra letteraria di quegli autori. La borghesia più raffinata riuscì anche a creare per qualche mese il mito di un poeta difficile quale Valéry o di un grande scrittore quale Joyce. Ma essi appartengono come i loro fratelli già nominati più all’arte che al costume.
Il dopoguerra letterario fu un tempo di mode turbinose ed effimere. Poi accrescendosi sempre più le difficoltà sociali e politiche si parlò sempre meno di letteratura e sempre più di guerra. Finchè venne la guerra davvero facendo crollare con tutti i suoi valori quella civiltà letteraria che dalla guerra aveva tratto le sue origini.
A.M.



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