lunedì 28 novembre 2016

Lucia Ronchetti al ROMAEUROPAFESTIVAL


L'ossimoro, del tutto evidente e dunque non involontario, che balza agli occhi non appena si ha conoscenza del titolo di questo nuovo lavoro di Lucia Ronchetti, Inedia Prodigiosa - sottotitolo: Opera corale per coro di voci femminili, coro misto e coro femminile amatoriale - ha un gemello nella concezione stessa dell'opera che ha per soggetto le donne digiunatrici nei secoli, ridotte a scheletri, come attestano, nel libretto ad opera di Guido Barbieri, i resoconti anatomici, ma che si esprime attraverso una musica opulenta, ricca di ritmi, contrasti e colori, a tratti perfino sgargiante per le numerose tracce della musica di ogni tempo, dal Perotinus della Scuola di Notre Dame, che apre l'opera, illuminandola di una luce folgorante, al Monteverdi dei sontuosi Vespri (1610), che con l'invocazione trinitaria (Gloria Patri), la chiude, dopo essere passata anche attraverso Giuseppe Verdi, padre indiscusso del melodramma.
Ma forse una ragione per questo secondo ossimoro c'è e va individuato in ciò che Lucia Ronchetti segnala, ad illustrazione di questa 'opera corale' - commissionatale dal Teatro Massimo di Palermo - quando afferma che il digiuno riduceva sì le donne a scheletri ambulanti, ma (a differenza di quel che accade oggi a donne giovani, che praticano il digiuno per inutili ed improduttivi fini estetici) le rendeva libere dal loro corpo e da qualunque altro bisogno, anche alimentare, finalizzato alla sopravvivenza, per finalità talvolta religiose, in generale ascetiche o di protesta, libere e creative al massimo, visionarie - mentre il mondo circostante le tacciava di pazzia.
Quelle donne, cinque in tutto, che rispondono ai nomi di Mollie Fancher, Anna Garberio, Jeanne Fery, Maria Maddalena de' Pazzi, Christina Georgina Rossetti, di ogni tempo e paese, esse medesime od altri su di loro (medici, analisti, sacerdoti) parlano nella loro lingua nel libretto che mette in fila ( sulla base di ricerche collezionate da Elena Garcia-Fernandez e Marco Innamorati), oltre i resoconti medici o cronachistici, alcune parole delle digiunatrici o 'pensieri' di Leopardi. Ed anche, ma questa volta in latino, qualche testo liturgico.
Ora questo spettacolo, che entra per le orecchie e non per gli occhi, può ancora dirsi 'opera' - come la Ronchetti lo definisce, non intendendolo nel senso 
di 'opus' ?
Perchè no? Ne siamo convinti. Perchè la drammaturgia, se non c'è palcoscenico perchè non c'è racconto, può prendere forma nella musica. E in quella 'corale' in particolare, che consente un doppio prezioso risultato. Da un lato scolpisce plasticamente la vicenda, anche quando - come in questo caso – la musica non sembra essere il pendant espressivo del testo, dall'altro evita di incorrere nel vero e più grande enigma della scrittura teatrale odierna. Quello del canto solistico, tuttora irrisolto, sebbene multiforme, ma tuttora non convincente, nella quasi totalità delle espressioni conosciute.
I cori impegnati nell'opera della Ronchetti provengono tutti dall'Accademia di Santa Cecilia, e vanno da quello 'misto' ufficiale, all'altro, amatoriale' ( Chorus e Cantoria, affidato alla direzione di Massimiliano Tonsini) e si avvalgono, nel non facile compito, della preziosa direzione di Ciro Visco.
I Cori divisi in due gruppi, numerosi quanto o forse più del pubblico stesso presente, erano sistemati nella suggestiva cornice delle Terme di Diocleziano, di fronte ed alle spalle del pubblico, stretto in mezzo, e perciò costretto qualche volta anche a sbirciare dietro, al fine di ottenere effetti stereofonici.
Ma non è detto che non si possa immaginare in una ripresa futura, anche una collocazione diversa e perfino una 'teatralizzazione', seppur minima, dell'opera, che rende conto di una maturità della Ronchetti anche in campo teatrale, nella direzione di un melodramma 'povero' di mezzi ma ricco di inventiva, ogni volta alla ricerca di nuovi più efficaci mezzi espressivi. E non è detto che non riesca a trovare una soluzione convincente anche per il canto solistico.



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