martedì 3 maggio 2016

Nei nostri teatri d'opera troppa attenzione agli spettacoli, meno alla musica

L'altro ieri, nella recensione del 'Trittico' pucciniano, in scena all'Opera di Roma, ad opera di un noto critico, evidentemente sbilanciato in favore del teatro romano, abbiamo notato la sottolineatura della svolta positiva del teatro, nel segno della 'contemporaneità' registica; ma siamo rimasti profondamente colpiti dalle battute finali di quella recensione, dedicata quasi esclusivamente a raccontare cosa s'era inventato quel diavolo di Michieletto -  al momento, presente contemporaneamente in  quattro o cinque teatri italiani e non - per dimostrare che quelle tre opere in un atto hanno un medesimo filo conduttore che egli con la sua regia ha finalmente  evidenziato.
Concludeva l'illustre critico che Carlo Fuortes, con la sua gestione dell'Opera di Roma, ci sta ABITUANDO MALE, così male che  gli sarà difficile d'ora in avanti apprezzare gli spettacoli degli altri teatri lirici italiani.
 Il critico si  metteva perciò, con quella sua conclusione azzardata (ed anche sconclusionata?) sulla scia di coloro i quali, incoraggiati dallo steso Fuortes, vanno sostenendo che finalmente la regia è di casa all'Opera, perché senza di essa il melodramma sarebbe finito. Sì, proprio così, secondo quanto si è sentito dire  più d'una volta recentemente e cioè che solo i registi riusciranno a tenere in vita l'opera. La regia, non la musica, che è sopravvissuta a diverse differenti stagioni scenografiche e registiche.
 Che questa idea stia facendo breccia massicciamente nella critica si capisce dallo spazio che essa riserva per raccontare ciò che si è visto in teatro, relegando alle quattro righe finali qualunque  annotazione sui cantanti  il direttore e l'orchestra. Forse perché son sa cosa dire della parte musicale? O perché su alcuni di tali elementi meglio tacere?
 Noi non riusciamo più a capire  se ciò che si  è ascoltato nel canto e dall'orchestra abbia una qualche dignità; i giornali non ne parlano, mentre si dilungano a raccontarci  quale stravaganza o innovazione il regista sì è inventato ed ha proposto.
 E Verdi, e Puccini cosa direbbero se assistessero a questi spettacoli, che vorrebbero reinventare le loro opere, ma che senza la musica richiamerebbero a mala pena  un decimo del pubblico attuale che accorre ad ascoltare la loro Traviata  o il Trittico, e non la Traviata di Talevi o il Trittico di Michieletto? Siamo convinti che caccerebbero 'i mercanti dal tempio'.
 Giorni fa leggevamo delle  numerose  e puntigliose annotazioni di Verdi relative alla scena  ed ai cantanti e delle recenti pubblicazioni degli studiosi pucciniani delle 'messe in scena' delle sue opere, ai suoi tempi. A che servono?  E a chi?
 Noi vorremmo sapere anche  come cantano gli artisti scritturati, se i cast erano adatti al titolo in cartellone, come suonava l'orchestra, convinti che le opere sono principalmente canto e musica, su storie talvolta anche bizzarre, ma  che non si risolvono con altre bizzarrie.
 Che è poi quello che interessa anche il pubblico di tante nazioni anche lontane che invitano i complessi dei nostri teatri, certi che lì vi porteranno la grande tradizione operistica ( canto e musica) più che la transitoria innovazione registica, del nostro paese che di quella tradizione dovrebbe  continuare ad essere depositaria, al di sopra delle mode passeggero, oltre che custode gelosa e fiera.
 E per l'Opera di Roma, che si è lasciata sfuggire Riccardo Muti - con tutti i difetti ed i rimproveri che gli si possono rivolgere - a quando la nomina di un direttore musicale se non di pari grado - un pò difficile a reperirsi - che almeno conosca il mestiere, abbia esperienza, e sappia tenere all'erta un' orchestra delle cui qualità non sentiamo più dire, dai tempi in cui Muti  l'ha lasciata.

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